Una Vita per la Missione


Il Dio delle donne

Dio e corpo 
Le donne cantano Dio a partire da un'esperienza del sé globale, inteso come corpo e spirito, come interno ed esterno, nel tentativo di ricucire lo strappo che marchia da sempre il pensiero (maschile) occidentale, nutrito di platonismo e dimentico dell'uomo biblico, il cui sentire, credere, pregare, affidarsi coinvolge globalmente l'essere.

Le donne, del resto, è così che accostano e conoscono il mondo: con il corpo. E' così che se ne prendono cura, lo nutrono, lo ospitano, gli fanno compagnia. Almeno questo è ciò che succede se nessuna imposizione esterna giunge per costringerle a dimenticare l'intima vocazione di cui sono portatrici.

Ecco allora Etty, e la sua riflessione attorno alla preghiera. Il racconto del suo rifiuto ad inginocchiarsi, che  gradualmente muta nell'urgenza fisica dello stesso gesto: Ieri sera, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me.
 
Per lei, pregare diviene un “fare con il corpo” e l'atto di inginocchiarsi diventa la risposta del corpo alla scoperta di Dio, risposta spontanea che germina entro la quotidianità: A volte un desiderio di inginocchiarsi preme attraverso il mio corpo, è quasi come se il mio corpo fosse stato pensato e fatto apposta per questo. Nei momenti di grande gratitudine, inginocchiarsi diventa un'urgenza quasi travolgente, la testa chinata, le mani davanti al mio viso.

Anche Alda, pur non negando al corpo la sua dimensione di ambiguità (nei suoi versi trova spazio anche il corpo ferito, stuprato, violato, imprigionato, reificato; un corpo che giace, che cade, che stramazza sotto un dolore troppo grande per essere sopportato....), ne rivendica la potenza generativa e relazionale, affidando ad esso la nostra sola possibilità di risollevarci. La grandezza di un Dio che si fa carne, la convince a tal punto della dignità assunta dal corpo umano, da farle scrivere il celebre verso:Se tutto un infinito ha potuto raccogliersi in un Corpo/ come da un corpo disprigionare non si può l'immenso?

L'esperienza di Dio, come l'esperienza dell'altro, non può nascere se non a partire dal corpo, che è la mia apertura sul mondo, la mia parola di carne. Alda si spinge così a cantare un incontro con Dio che diviene relazione amorosa, carnale, erotica, capace di riecheggiare sullo sfondo alcune pagine del Cantico dei cantici o gli scritti delle mistiche medievali tanto care a Luisa Muraro.
 
Il corpo di Alda, toccato dall'incontro con il divino, è risanato e sollevato ad una più alta dignità; esso scopre nell'estasi dei sensi il passaggio ad un'estasi più alta, che non avvilisce  la prima, ma anzi la legittima; impara ad affidarsi sino all'irragionevolezza, conosce Il “bello e buono” del progetto divino e vi aderisce, vi crede anche dinanzi a tutte le apparenze contrarie. E Maria di Nazaret, difronte alle donne che le annunciano l'evidenza della morte del Figlio riesce così a gridare, a partire dal suo corpo: Egli è vivo, è vivo, lo grida la mia carne di madre. (…). La mia carne brucia di dolore, ma il mio corpo esulta.: Egli è risorto!
   
 
Chiara Saletti, Coordinamento Teologhe Italiane 
 
 

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Il Dio delle donne 

 
Libertà di essere, libertà di dire
Nelle parole di queste donne si fa strada una religiosità libera, personale, eclettica, non facilmente riconducibile entro una dimensione confessionale. Prende corpo una libertà di dire e di essere che permette loro di respirare a pieni polmoni, di cadere, di rialzarsi, in una parola di vivere, non avendo in sé il proprio equilibrio, ma vivendo in precario equilibrio al di fuori di sé.
 
È ancora Muraro che ci parla di questo: c'è una libertà che non troviamo scritta nella Costituzione perché non è un diritto, che si pratica senza enfasi e perciò non si nota. (…). E' la libertà dall'ansia di indagare, dimostrare, testimoniare l'esistenza di Dio (o il suo contrario). (…). Per chi ha questa libertà, Dio smette di essere un oggetto di fede, un garante del vero e del giusto, un ricorso contro il male di questo mondo. Ma resta. Resta come una dimensione ulteriore del reale. Resta fra le parole che possiamo ascoltare o pronunciare, anche se non sappiamo quello che significa, anche se non pronunciamo il suo nome... resta come un silenzio propizio al senso libero delle parole, comprese quelle che non hanno senso (pp. 45-46).

Libertà di essere, dunque, che dà vita ad una libertà di dire e che sfocia nel bisogno di un nuovo linguaggio. Otri nuovi per il nuovo vino, capaci di narrare cose mai provate prima, atti ad accogliere anche la negazione ed il dissenso come luogo del dirsi di Dio: il resoconto di Dio - scrive Alda - sta forse in tutte le nostre maledizioni, forse il resoconto di Dio sta nelle nostre bestemmie, rivendicando così il suo diritto di cantare l'alterità di Dio anche e soprattutto a partire dalla fatica di trovarla, dallo sgomento per la sua assenza, dalla rabbia per il suo silenzio.

È, questa lingua nuova, quella che Muraro chiama una teologia in lingua materna, teologia che fa cominciare Dio dal luogo ancora non-luogo, dal tempo ancora non-tempo in cui un'esperienza cerca le parole per dirsi: non dalla Bibbia né dalla tradizione né dai filosofi antichi né dall'autorità religiosa. Lo fanno cominciare con la dicibilità dell'esperienza e con la gratuità rischiosa della libertà...Non ci sono parole escluse dal loro linguaggio...Di qui l'importanza della scrittura in lingua materna, scrittura “sacra” di una vera e propria rivelazione femminile di Dio. Che all'altra non toglie validità, ma offre un nuovo inizio (pp. 60-62).

Anche Etty si confronta con la stessa esigenza e fa sua la medesima ricerca, quando scrive: A volte vorrei rifugiarmi con tutto quello che ho dentro in un paio di parole. Ma non esistono ancora   parole che mi vogliano ospitare. E ancora: Mi sono resa conto che è così che voglio scrivere: con altrettanto spazio intorno a poche parole. Troppe parole mi danno fastidio....Non un vuoto, ma uno spazio che si potrebbe piuttosto definire ricco d'anima.

E Zambrano, dal canto suo, invoca quella che chiama una ragione poetica, necessaria novità anche linguistica, capace di dar voce alle continue rinascite, alle parole e agli eventi trascurati in cui ci è possibile rintracciare ciò che sopravvive, nonostante tutto, entro le nostre morti, illuminato dalla potenza vivificante dello Spirito.  Ad una tale ragione poetica, che si configura come insospettata aderenza alla vita, che sa guardare la parte più fragile del nostro essere, che non lascia passare invano le nostre rinascite, ella affida il compito di  recuperare ciò che giaceva sul fondo della storia, di educarci ad un nuovo sentire dell'anima.
  
 
Chiara Saletti, Coordinamento Teologhe Italiane 
 

 


Il Dio delle donne 

 

Il paradiso è qui? 

Il dolore, il dubbio, il limite, la fragilità, il bisogno, l'esilio, la follia, divengono così altrettante “occasioni” entro le quali può sprigionarsi l'epifania del divino che abita il mondo. E' quanto tenta di dirci Margherita (Porete) quando afferma che il paradiso è in questa vita e che consiste nella scoperta della propria nudità e mancanza, uniche condizioni per far accadere quell'impossibile che è Dio stesso, nell'angustia delle vicende umane.
 
Solo nello scoprirci mancanti, e per questo disposti ad esser colmati da Altro, si apre la via di una relazione, che si connota come disponibilità a fare spazio, a sporgersi verso l'altro e a fargli posto, abbandonando i modi di una ricerca ingombrante ed aggressiva per imparare a disfarsi di sé. (Muraro, pp. 84-94).

Questo spinge ad abitare l'attesa, ad assumere l'esistenza come continua speranza, che pone attenzione più alla dimensione passiva dell'accogliere che a quella attiva del cercare, del definire, del conquistare. Per Maria Zambrano, l'attesa connota il femminile stare al cospetto di Dio e figura di questa attesa, che diviene ascolto attento, è per la filosofa andalusa Maria di Nazaret .
 
Ella incarna la consapevolezza dell'esistere in risposta ad un'alterità che chiama, che supera e che eccede; risposta che si fa ricettività, che si lascia plasmare sino a divenire figura teologica essenziale, emblema della libertà dell'azione dello Spirito nella creatura che sa essere disponibile (su Zambrano si legga il bel libro di Lucia Vantini, La luce della perla, Effatà). Così canta l'attesa Antonia Pozzi:
 
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l'arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l'orzo intorno alla casa.
(Parole, Garzanti)
 
 
In Etty del resto, la stessa disposizione ad accogliere, si fa ascolto, sensibilità empatica che permette di scoprire oltre i volti il Volto, che giace in fondo, abbarbicato ad ogni essere, irriducibile all'annientamento: la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri e Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell'altro. Dio a Dio.

Scoprire Dio a partire dall'incontro/ascolto con l'umano è del resto uno degli snodi cruciali dell'esperienza di Etty: il suo sguardo si posa su quanti le stanno intorno, uomini, cose, storie. Ella se ne immerge, sentendosi parte dell'ininterrotto movimento del cosmo, della sua tensione al compimento, del suo eterno fluire. E in questo amoroso consenso all'esistenza, si abbandona con fiducia al Dio disseminato nelle cose, sepolto nei cuori.
 
Al Dio che tutto ha fatto per il bene. Al Dio che resta, per aiutarla a comprendere come anche ora tutto è sempre un bene: la vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio.
 
Il Dio che abita il dolore, che lo attraversa sino a risolverlo nella misteriosa rinascita della Pasqua, è  uno dei temi cari a Maria Zambrano, che tenta una rilettura al femminile della passione del Cristo (così definita in opposizione ad un paradigma maschile, incapace di accettare la kenosi del Figlio e la sconfinata misericordia che l'ha generata, tanto incapace, da costruire un muro di teorie e di astrazioni a giustificazione di quello che ancor oggi appare più un fallimento, un sacrificio, che una parola d'amore).

Per Maria, la vicenda della sconfitta del Dio-Figlio si inscrive in quella dell'umanità, votata all'incessante rincorrersi di cadute e risurrezioni. Accettando di farne parte, Dio canta il suo amore per la storia umana, amore che lo porta a dissolversi in essa. Ma canta anche l'inesauribile forza che da esso promana. Forza capace di raccogliere i frammenti delle nostre sconfitte per riempirli nuovamente di vita.
 
E' così che Maria immagina l'azione dello Spirito, accanto al Figlio, come una continua palingenesi, sotto lo sguardo materno e sorgivo del Padre. E' questo ciò che accadde a Maria stessa nell'esperienza quarantennale dell'esilio, in cui entro la privazione e l'abbandono, scopre radici tanto profonde e luminose da permettere l'intuizione del Trascendente: nel vero esilio si apre l'immensità che può passare inosservata all'inizio. Estrema vulnerabilità. Senza l'estrema vulnerabilità l'immensità non appare.
 
L'abbraccio benedicente di Dio diviene così il grembo materno che prende a cuore le nostre innumerevoli morti (come non ricordare gli uteri di misericordia che connotano il Dio del Primo Testamento?), ove torniamo ad essere accolti sino ad uscirne nuovi, colmati di energia, colmati di vita: Non c'è inferno che non sia il viscere di qualche cielo, scrive allora Zambrano.
 
 
Chiara Saletti, Coordinamento Teologhe Italiane