
Una Vita per la Missione
Una riflessione sui recenti fatti avvenuti a Castel Volturno
21.07.2014 23:52Pubblicato: 21/07/2014 10:30 CEST Aggiornato: 21/07/2014 10:32 CEST
Sono stato in questi anni diverse volte a Castel Volturno: in campagna elettorale, dove sulla scorta di una ribellione politica e morale, il centrosinistra ha vinto con una rimonta incredibile al ballottaggio; nelle fasi più acute della crisi ambientale che ha scoperchiato un giro inenarrabile di malaffare e dove comitati ambientalisti reclamavano il diritto insindacabile alle bonifiche di terreni massacrati dalla camorra inquinatrice, ed ancora tante altre volte dopo la strage di San Gennaro che nel settembre di sei anni fa fece conoscere al mondo le contraddizioni di una città che da anni si era ormai trasformata in una sorta di Soweto dell'Europa occidentale. Morirono sei immigrati ghanesi uccisi da un commando guidato da Setola, leader dell'ala militare del clan dei Casalesi, che a colpi di kalashnikov decise di far capire alle comunità presenti sul territorio chi realmente comandava.
Dopo di allora nulla fu come prima. L'indimenticabile Miriam Makeba morì sul palco di un concerto antimafia proprio a Castel Volturno, e per mesi giornalisti di tutto il mondo si interrogarono sul fragile equilibrio su cui si reggeva una città del sud metà italiana e metà immigrata. La risposta del Governo di allora, guidato da Silvio Berlusconi, fu quella di militarizzare per una fase il territorio. Si parlò di "modello Caserta" e il Ministro degli Interni Maroni si recò molte volte a visitare quei luoghi, provando a dimostrare la presenza di uno Stato, dopo anni di devastazione territoriale e urbanistica, assente. Poi non si parlò più di Castel Volturno, nonostante alcuni luoghi di eccellenza come il Centro Fernandes della Caritas avessero mostrato a tutti come fosse possibile garantire politiche di convivenza tra bianchi e neri di diverse generazioni, paesi e lingue e nonostante l'azione incessante di Libera nel garantire ai beni confiscati un rilancio produttivo e duraturo.
Oggi la situazione non è andata avanti. Ci sono cose nuove, senz'altro, tra cui la crisi profondissima del clan dei Casalesi, con il pentimento recentissimo di Antonio Iovine. La decapitazione dei vertici della più potente alleanza camorristica della Campania ha inevitabilmente determinato un vuoto. Come se in un luogo dove lo Stato si era ritirato da
anni dalle sue funzioni, anche l'antistato che deteneva nei fatti il monopolio della forza fosse venuto meno. E con esso anche il controllo certosino delle piazze di spaccio, del traffico della prostituzione e la grande partita dei rifiuti. Penso che tra le tante spiegazioni di cosa sia accaduto nell'ultima settimana lì, con la sparatoria di Pescopagano ad opera di due vigilantes (senza alcuna autorizzazione pubblica) verso due immigrati ghanesi e la conseguente reazione di piazza, questa sia una di quelle più evidenti. La camorra si è polverizzata, crescono micro-organizzazioni criminali che cercano di occupare porzioni di territorio e che per farlo devono diventare credibili agli occhi degli italiani come detentori dell'ordine e spaventare gli immigrati irregolari, tentando di metterli di nuovo nel ghetto. D'altra parte le parentele dei due autori del tentato omicidio, i Cipriani, sono note a tutti coloro che stanno portando avanti le indagini.
Oggi tutti si occupano di nuovo del destino di Castel Volturno, mi dice il giovane e valido Sindaco Dimitri Russo, a capo di una giunta progressista. Ma chi governa non può limitarsi ad offrire solo solidarietà: è necessario restituire normalità a una città che normale non è. 25000 sono i cittadini, 4000 gli immigrati registrati all'anagrafe rispetto ad almeno altri 10000 quelli non censiti. Il Comune da solo non ce la fa, con il dissesto ereditato dalla destra e le risorse che scarseggiano. Solo 14 sono i vigili in un territorio tra i più estesi della Campania (circa 72 km quadrati e una linea di costa di 25 km sconvolta dall'abusivismo) e 35 le unità di polizia, che servono anche molti altri Comuni limitrofi; negli anni novanta erano più del doppio. Come si fa a parlare di legalità quando non si riescono a garantire nemmeno due volanti al giorno che pattugliano le strade? E come si fa a parlare di integrazione quando il Comune non può assumere nemmeno un mediatore culturale nella città più multietnica d'Italia? A Castel Volturno vivono fortissime comunità dell'Africa subsahariana (nigeriani e ghanesi in primis), ma anche marocchini, iraniani, indiani, russi, ucraini, polacchi, rumeni e persino cinesi. C'è tutto il mondo che sembra essersi dato appuntamento sulle sponde del Volturno, ma nessuno si pone il problema di come comunicare con loro. Infine ci sono gli investimenti ancora a bagnomaria dell'Europa, a partire dalla bonifica dei regi lagni, infrastruttura decisiva, su cui la Regione ha sbloccato fondi nell'ultima programmazione ma che non è ancora partito nulla da due anni. Così come la darsena da ristorare con l'accordo di quei Coppola, costruttori dell'omonimo villaggio "monstre" edificato negli anni sessanta sul suolo demaniale e che rappresenta un monumento immortale allo sfruttamento del paesaggio a fini speculativi, che non è ancora partita. Siamo, dunque, di fronte a scelte non rinviabili su vari terreni: dal ripristino della legalità alla sfida della convivenza, dal rilancio dello sviluppo al risanamento ambientale. Castel Volturno è un pezzo di quella scommessa di riscatto che il Mezzogiorno deve ancora vincere.
Di Arturo Scotto
Capogruppo Sel Commissione Esteri Camera
Dal giornale L’Huffington Post Gruppo Espresso. 21 Luglio 2014
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