Una Vita per la Missione


S. Agostino - Il Maestro interiore

08.10.2015 07:32

 

GLI    SCOPI PRINCIPALI DEL LINGUAGGIO    
 
 
Agostino: —    Cosa ti sembra che intendiamo fare, quando parliamo?  
 
Adeodato: —    Per quanto ora mi viene in mente, o insegnare, o apprendere.  
 
Agostino:: —    Il primo di questi scopi lo vedo bene e sono d'accordo; è evidente infatti    che, parlando, vogliamo insegnare. Ma apprendere, come?  
 
Adeodato: —    E come pensi, se non interrogando?  
 
Agostino: —    Ma anche in tal caso, per quanto comprendo, non si vuole far altro che insegnare.  Ti chiedo infatti: tu interroghi per un motivo diverso da quello di insegnare    ciò che vuoi al tuo interlocutore?  
 
Adeodato: —    E’ vero.
 
S. Agostino: Il Maestro interiore - Monastero Virtuale un' oasi di spiritualità cattolica nell'immenso mare del web
 
Agostino: —    Vedi dunque che con il linguaggio miriamo soltanto a insegnare.  
 
Adeodato: —    La cosa non mi è del tutto chiara. Infatti se parlare equivale semplicemente  a proferire parole, secondo me facciamo ciò anche quando cantiamo. E    poiché spesso cantiamo da soli, cioè senza che sia presente qualcuno    che apprenda, non penso che in questo caso vogliamo insegnare qualche cosa.  
 
Agostino: —    Io invece penso che vi è un modo di insegnare mediante il richiamo del  ricordo e che è certamente importante, come lo mostrerà l'oggetto    stesso di questa nostra conversazione. Se pero tu non ritieni che apprendiamo  quando ricordiamo né che insegna chi fa ricordare, non ti contraddico.    Stabilisco comunque due motivi per parlare: o per insegnare o per far ricordare  qualche cosa a noi stessi e ad altri. E’ così che facciamo anche quando cantiamo, non ti pare?  
 
Adeodato: —  Niente affatto; è piuttosto raro infatti che io canti per ricordarmi di qualche cosa: lo faccio soltanto per diletto.  
 
Agostino: —  Capisco ciò che pensi. Ma non ti rendi conto che ciò che ti procura diletto nel canto è una certa modulazione del suono? E, poiché tale modulazione può essere aggiunta e tolta alle parole, altro è    parlare, altro è cantare. Si canta con il flauto e con la cetra; anche gli uccelli cantano; e noi talora, pur senza proferire parole, moduliamo qualche    suono musicale che si può chiamare canto ma non linguaggio. Hai qualche cosa da obiettare?  
 
Adeodato: — No, nulla affatto.  
 
Agostino: —  Non ti pare dunque che il linguaggio sia stato istituito soltanto o per insegnare  o per far ricordare?  
 
Adeodato: —    Sarei di questo avviso se non mi turbasse il fatto che sicuramente parliamo  quando preghiamo e pur tuttavia non ci è consentito credere che insegniamo  o facciamo ricordare qualche cosa a Dio.  
 
Agostino: —    Ritengo che non sappia che ci è stato prescritto di pregare nel chiuso  delle nostre camerette (nome con cui si indica l’intimità dello  spirito) unicamente perché Dio non chiede al nostro linguaggio né    che gli faccia ricordare né che gli insegni qualche cosa per esaudire    i nostri desideri. Chi parla dà un segno esteriore della propria volontà  mediante un suono articolato; Dio invece deve essere cercato e invocato nella    profondità stessa dell'anima razionale, che è chiamata l’"uomo    interiore": ha voluto che questo fosse il suo tempio.  Non hai letto nell'Apostolo:    Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo spirito di Dio abita in voi ;  e ancora: E’ nell'uomo interiore che Cristo abita?  E non hai notato la parola del Profeta: Parlate nei vostri cuori e pentitevi nelle vostre   camere. Celebrate il sacrificio di giustizia e sperate nel Signore ? E dove    pensi che si possa celebrare il sacrificio di giustizia se non nel tempio dello    spirito e nella camera del cuore? Ora, dove si deve sacrificare si deve anche    pregare. Perciò la nostra preghiera non ha bisogno del linguaggio, cioè    di parole che risuonano, a meno che non sia necessario esprimere il proprio    pensiero, come avviene per i sacerdoti, non perché sia inteso da Dio,  ma dagli uomini e questi, per un certo qual consenso in essi suscitato mediante   questo ricordo, si rivolgano a Lui. O tu pensi diversamente?  
 
Adeodato:—    Sono pienamente d'accordo.  
 
Agostino: —    Non ti colpisce dunque il fatto che il sommo Maestro, quando insegnò ai discepoli a pregare, insegnò loro delle parole? Così facendo, sembra che non abbia fatto altro che insegnare come si deve parlare quando si    prega.  
 
Adeodato: —    La cosa non mi colpisce affatto; infatti non le parole, ma le cose stesse insegnò mediante le parole con cui anche i discepoli avrebbero dovuto ricordare a se  stessi chi dovevano pregare e che cosa dovevano chiedere, quando pregavano,    come si è detto, nell’intimità dello spirito.  
 
Agostino: —  Hai ben compreso; nello stesso tempo, credo, ti rendi conto, sebbene qualcuno lo escluda, che, pur senza emettere alcun suono, tuttavia noi, per il fatto    che pensiamo le parole stesse, parliamo nell'intimo della nostra anima. Così anche in questo caso il linguaggio non fa altro che richiamare il ricordo, poiché    è la memoria che, rievocando le parole che sono in essa impresse, fa venire alla mente le cose stesse di cui le parole sono i segni.  
 
Adeodato: — Comprendo e ti seguo.  
         
 
IL    SIGNIFICATO DELLE PAROLE  
 
 
Agostino: —    E’ inteso dunque tra noi che le parole sono segni?  
 
Adeodato: —    E’ inteso.  
 
Agostino: —    Ma un segno può essere tale anche se non significa alcunché?  
 
Adeodato: —    No, non può.  
 
Agostino: —    Quante parole ci sono in questo verso: Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui ?
 
Adeodato: —   Otto.  
 
Agostino: —   Perciò ci sono otto segni?  
 
Adeodato: —    Sì.  
 
Agostino: —    Credo che tu comprenda questo verso.  
 
Adeodato: —    Abbastanza, penso.  
 
Agostino: —    Dimmi cosa significa ciascuna parola.
 
Adeodato: —    In verità comprendo cosa significa si (se), ma non riesco a trovare nessun'altra parola che possa chiarirne il significato.
 
 Agostino: —    Qualunque sia la cosa significata da questa parola, riesci almeno a trovare   dove si trova?  
 
Adeodato: —    Mi pare che si (se) significhi dubbio, e il dubbio dove si trova se non   nell'anima?  
 
Agostino: —    Per il momento lo ammetto; passa alle altre parole.  
 
Adeodato:—    Nihil (niente) che altro significa se non ciò che non è?
 
Agostino: —    Forse dici il vero; ma mi trattiene dal dare l'assenso ciò che hai ammesso in precedenza e cioè che non si dà segno che non significhi qualche cosa. Ora, ciò che non è in nessun modo può essere qualche    cosa; perciò la seconda parola del verso citato non è un segno    perché non significa alcunché. Erroneamente dunque si è convenuto tra noi che tutte le parole siano segni o che ogni segno significhi    qualche cosa.  
 
Adeodato: —    Invero mi incalzi troppo; ma, quando non si ha nulla da significare, è  proprio da sciocchi proferire qualche parola. Ora presumo che tu, nel parlare  con me, non emetti alcun suono inutilmente, ma con tutti i suoni che escono dalla tua bocca mi dai un segno perché io comprenda qualche cosa. Di conseguenza non è opportuno che tu pronunci queste due sillabe quando parli, se con esse non intendi significare nulla. Ma se capisci che sono strumento    indispensabile per l'enunciazione e che, nel risuonare alle nostre orecchie, esse ci insegnano qualche cosa o ci danno un avvertimento, allora certamente    capisci anche ciò che vorrei dire, ma che non sono in grado di spiegare.  
 
Agostino: —    Che facciamo dunque? Con questa parola, più che la cosa stessa che non esiste, forse vogliamo significare quel particolare stato in cui l'anima non vede la cosa e tuttavia trova o pensa di aver trovato che non esiste?  
 
Adeodato: —    Forse è proprio ciò che mi sforzavo di spiegare.  
 
Agostino: —    Comunque la questione stia, andiamo avanti perché non ci capiti una cosa del tutto assurda.  
 
Adeodato: —    E quale?  
 
Agostino: —    Che subiamo qualche ritardo, nonostante "niente" ci trattenga.  
 
Adeodato: —    La cosa in verità sarebbe ridicola; tuttavia, pur non sapendo come, capisco che può accadere, anzi che è già accaduta.
 
Agostino: —    A suo tempo, se Dio lo permetterà, comprenderemo meglio questa sorta di paradosso. Ora riportati a quel verso e cerca di spiegare, come puoi, il significato delle altre parole.  
 
Adeodato: —    La terza è la preposizione ex, in sostituzione della quale, penso, possiamo dire de.  
 
Agostino: —    Ma io non ti chiedo di dire, in sostituzione di una parola molto nota, un'altra egualmente molto nota e che ha lo stesso significato, se pure ha lo stesso significato; ma per ora ammettiamo che sia così. Naturalmente se il poeta, invece di ex tanta urbe, avesse detto de tanta e io ti chiedessi cosa significhi de , tu mi diresti ex perché sono due parole, cioè due segni che, secondo la tua opinione, significano una sola cosa. Ma io cerco proprio quel non so che di unico che è significato da questi due segni.  
 
Adeodato: —    Mi pare che significhi la separazione, dal luogo dove si trovava, di una cosa di cui si dice che proviene da là, sia che quel luogo non esista più, come avviene nel verso citato (infatti, benché la città non esistesse più, tuttavia da essa potevano provenire alcuni Troiani), sia che esso esista ancora, come diciamo, per esempio, che in Africa ci sono negozianti venuti    dalla città di Roma.  
 
Agostino: —   Ti concedo che sia così e non enumero tutti i casi che forse sfuggono a questa tua regola. Ti è facile però renderti conto che hai spiegato parole con parole, cioè segni con segni, segni notissimi con segni ugualmente notissimi. Ora io vorrei che tu mi mostrassi, se ti è possibile, le cose stesse di cui queste parole sono i segni.  
  
 
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