Una Vita per la Missione


Meditazioni di Enzo Bianchi

29.03.2014 17:24

"Inferno: quel fuoco acceso dalla nostra libertà"

Meditazione di Enzo Bianchi

 

  
Constatiamo tutti, ed è stato più volte denunciato, che sui novissimi regna negli ultimi decenni un certo silenzio anche nello spazio ecclesiale, ma dobbiamo riconoscere che soprattutto sull’inferno non solo c’è mutismo nella predicazione, ma c’è una reale difficoltà nel pensarlo come voluto da Dio e da Dio inflitto almeno a una parte dell’umanità, quella peccatrice e non convertita, non riconciliata con lui. Per molti cristiani l’inferno eterno plasma l’immagine di un Dio perverso, vendicatore, finanche sadico; e per i non cristiani l’inferno sembra un’Auschwitz eterna, qualcosa che solo un potere malefico potrebbe inventare.
 
Anche Teresa del Bambino Gesù sentiva una grande reticenza nei confronti dell’eternità della pena, e molti uomini e donne "spirituali" (pneumatikoi) hanno dichiarato la loro impossibilità a concepire la compatibilità di un luogo di tormenti eterni con la bontà di un «Dio che vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2,4). Ma questa difficoltà è antica ed è stata avvertita con particolare forza in alcune epoche della storia del cristianesimo.
 
Nel III secolo molti padri della Chiesa, tra i quali Origene, pensavano a una salvezza universale; altri in diverse tradizioni cristiane hanno mostrato un amore misericordioso estremo, fino a pregare di essere mandati loro all’inferno, purché tutti i loro fratelli e sorelle in umanità trovassero la salvezza; altri ancora, come Isacco il Siro (VII secolo), sono giunti a pregare per una salvezza cosmica in cui tutte le creature, sapienti o insipienti, buone o malvagie, sarebbero state perdonate dall’infinita misericordia di Dio. Nel cattolicesimo italiano resta folgorante l’amore di Caterina da Siena, questa donna fatta fuoco, che scriveva: «Come potrei sopportare, o Signore, che uno solo di quelli che hai creato a tua immagine e somiglianza si perda e sfugga dalle tue mani?
 
No, per nessuna ragione io voglio che uno solo dei miei fratelli si perda, uno solo di quelli che sono uniti a me attraverso una stessa nascita». Tutti costoro sono dei santi e delle sante che seguono l’esempio di Mosé e di Paolo. Mosé che dice a Dio: «Questo popolo ha commesso un grande peccato … Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancella me dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). E secondo la tradizione ebraica arriva fino ad affermare: «Signore del mondo, perisca Mosè e mille come lui, ma non si perda un’unghia di uno di Israele!».
 
Paolo, dal canto suo, esprime la propria solidarietà con gli ebrei suoi fratelli, dicendosi disposto a essere lui scomunicato e maledetto, separato da Cristo, se questo può giovare all’Israele che non ha riconosciuto Gesù come Messia (cf. Rm 9,1-3). Dobbiamo però riconoscere che oggi l’inferno è rimosso soprattutto come reazione a un insegnamento che lo affermava per intimorire e minacciare, credendo in tal modo di poter dissuadere il popolo cristiano dal peccare. Io stesso non dimentico la predicazione di un padre domenicano che nel terzo giorno degli esercizi, quello dedicato alla meditazione dell’inferno, riempiva il suo discorso di esempi di tortura e di dolore e riusciva addirittura a far sentire l’odore acre dello zolfo…
 
Straordinaria capacità oratoria e teatrale, ma certo non atta a celebrare la misericordia infinite del Signore! Dunque, che dire oggi dell’inferno? Restare in silenzio, tralasciando di ascoltare le sante Scritture, oppure essere preda delle ossessioni e continuare a predicarne l’esistenza e la qualità di castigo terribile, come se questo fosse la buona notizia di Gesù? Cerchiamo dunque di metterci in ascolto delle Scritture. Nell’Antico Testamento non si parla dell’inferno come lo intendiamo noi, ma di she’ol, di inferi, intesi come un luogo dove i morti sono raccolti, nel quale non si può avere comunicazione con Dio e da cui non si può risalire.
 
La retribuzione ai giusti e ai malvagi è data da Dio in questa vita – come cantano anche alcuni salmi (per esempio Sal 32,10: «Molti sono i dolori del malvagio, ma l’amore circonda chi confida nel Signore») – e non si osa pensare a una beatitudine o a una maledizione eterna: «Mi jodea’? Chi sa?" (Qo 2,19; 3,21; 6,12). E tuttavia in epoca giudaica si fa strada la speranza della resurrezione e si comincia a intravedere come una beatitudine la vicinanza a Dio dei giusti anche dopo la morte. Gesù, che rivela pienamente l’azione e la presenza di Dio dopo la morte, dà soprattutto la buona notizia del Regno fattosi vicinissimo (cf. Mc 1,15; Mt 4,17), che egli apre a tutti.
 
Si tratta, da parte dell’uomo, di accoglierlo e quindi di convertirsi, scegliendo tra il bene e il male, tra l’amore di Dio e del prossimo e l’amore di sé egoistico e orgoglioso. Come i profeti che lo hanno preceduto, il profeta Gesù che tutto porta a compimento, esorta, mette in guardia, rimprovera, si adira, a volte minaccia. In verità Gesù non è mai violento, anzi egli depotenzia sempre la sua autorità di profeta, di Messia e di Figlio di Dio, ma mostra la sua indignazione per il male e protesta per il male che vede, soprattutto per la violenza e la menzogna dilaganti. Per condannare il male in modo chiaro e indicare che l’uomo può scegliere vie mortifere, ricorre a immagini diverse, tratte sia dalle Scritture sia dalla sua contemporaneità.
 
Commettere il male significa «incamminarsi verso una fornace ardente (Dn 3,6), dove è pianto è stridore di denti» (Mt 13,42); significa «sprofondare nella geenna» (Mc 9,43.45.47; Mt 18,9), la discarica dei rifiuti della città di Gerusalemme; significa finire negli inferi, dove c’è sete a causa delle fiamme (Lc 16,24). Soprattutto l’Apocalisse, al termine del Nuovo Testamento, ci fornisce immagini infernali: lo stagno di fuoco in cui saranno gettati la morte e gli inferi e nel quale potrà essere gettato chi non è scritto nel libro della vita (Ap 20,14-15), e «la seconda morte» (Ap 2,11; 20,6.15; 21,8), la morte definitiva.
 
Sì, queste immagini sono crudeli, ma come descrivere altrimenti l’esito di una via che ha scelto la morte, la violenza, la prepotenza e non ha mai riconosciuto la vita dell’altro, non ha mai avuto discernimento del povero e del bisognoso, non ha mai riconosciuto la fraternità umana? Certo, queste sono solo immagini, ma ci dicono che noi possiamo scegliere non la vita e la comunione con Dio, ma la morte eterna e la separazione da Dio! L’inferno dunque non indica un luogo ma una situazione in cui potranno cadere coloro che liberamente e definitivamente hanno scelto tutto ciò che è contrario alla volontà di Dio e, di conseguenza, anche a ogni cammino di umanizzazione.
 
Noi siamo portati a immaginare l’inferno come luogo, ma esso è un «non-luogo», un «non-essere», un «non-tempo», è il nulla di una morte eterna. Dio vuole che tutti siano salvati, suo Figlio Gesù è venuto nel mondo per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,17 e par.; 1Tm 1,15): ma di fronte al bene o al male l’uomo, seppure in una condizione di fragilità propria della sua natura, resta sempre libero di aderire all’uno e rifiutare l’altro, almeno con il desiderio e la volontà.
 
A qualcuno anche le parole dure di Gesù sembrano una violenza, ma questo perché oggi viviamo in una cultura in cui non si è più capaci di indignarsi né di avere passioni: tutto va bene, tutto si aggiusta, tutto è semplicemente uno sbaglio… Non c’è più l’affermazione e l’esercizio della responsabilità umana, dalla quale – non dimentichiamolo – dipende la vita o la morte dell’altro, del prossimo. Che cosa dunque credere? Se accogliamo le parole delle Scritture sull’inferno, dobbiamo innanzitutto vedere in esse una chiamata alla responsabilità, mediante la quale esercitare la nostra libertà in vista del nostro destino.
 
È vero che Gesù ha chiesto al Padre di perdonarci perché non sappiamo ciò che diciamo e facciamo (Lc 23,34); è vero che la giustizia di Dio è giustizia che giustifica, che rende giusti, perché contiene in sé la misericordia e il perdono (Rm 5,1-11); è vero che noi non possiamo meritare l’amore di Dio, perché è un amore donato gratuitamente, che mai deve essere meritato. Ma di fronte a questa immensità dell’amore dobbiamo essere "responsabili" e consapevoli che possiamo commettere azioni che sono "morte" dell’altro o degli altri. Non ci può essere per noi una salvezza automatica, qualunque cosa facciamo, qualunque vita viviamo, anche perché l’inferno noi lo creiamo qui sulla terra, diventando sovente noi "inferno" per gli altri.
 
Edith Stein nell’inferno di Auschwitz nel 1942 scriveva: «Appartiene a ciascuno decidere del proprio destino. Dio stesso si ferma davanti al mistero della libertà di ogni persona». L’inferno non è un articolo della professione di fede, come non lo è il diavolo, anche perché al diavolo e all’inferno non è necessario credere, dal momento che ciascuno di noi ne fa l’esperienza: siamo tentati da una potenza al di fuori di noi e dominante su di noi e possiamo conoscere il male fino alla morte e alla separazione da Dio… Tuttavia non è conforme alla fede cristiana affermare che non c’è l’inferno o che l’inferno è vuoto. Come gli ebrei dico: «Mi jodea’? Chi sa?».
 
Ma come discepolo di Gesù mi è chiesto di riconoscere la misericordia di Dio e di cantarla sempre; non solo, mi è chiesto anche di sperare per tutti, di sperare che tutti siano salvati e preservati dall’inferno, di pregare anche per i peggiori criminali, affinché conservino una porzione, una scintilla di umanità, capace di accogliere l’ultima chiamata di Dio. Davanti al volto di Dio sarà possibile che noi scegliamo non lui che è la Vita, ma il non-essere della morte? Hans Urs von Balthasar scriveva nel 1986, quasi come un testamento, un piccolo libro intitolato Sperare per tutti. Sulla scia di tanti santi e sante, uomini e donne spirituali, chiedeva al discepolo di Gesù di pregare perché tutti siano salvati.
 
La Chiesa osa proclamare dei santi, cioè affermare che alcuni cristiani sono presso Dio, nella sua beatitudine, e dunque in comunione con noi, ma non ha mai osato affermare che qualcuno sia all’inferno e che debba sfuggire alla misericordia, all’amore folle del Signore nostro Gesù Cristo! Dunque né terrore né silenzio: si proclami la misericordia infinita di Dio, la sua volontà della salvezza universale e cosmica; si preghi perché sia fatta la sua volontà, come in cielo così in terra; si speri per tutti; e se si ha la forza dell’amore si chieda al Signore, come Mosé e Paolo, di essere noi mandati all’inferno, purché tutti siano salvati. Ciascuno di noi deve dire umilmente: «Non so» e ricordarsi di Giovanna d’Arco. Le chiesero prima di bruciarla: «Sei tu in grazia di Dio?». Ed essa rispose: «Se sono in grazia di Dio, Dio mi conservi in essa. Se non sono in grazia di Dio, Dio mi metta nella sua grazia».
 
Enzo Bianchi
 

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Enzo Bianchi

"La violenza e Dio"

Vita e Pensiero

 

Nelle sante Scritture ci sono parole dure, espressioni che ai nostri orecchi suonano sgradevoli, testimonianze su sentimenti dei credenti ma anche di Dio che ci urtano e qualche volta forse ci scandalizzano. Le Scritture non allettano, raramente seducono, anzi spesso contestano le nostre certezze religiose fino a contraddirle. È vero, numerosi sono i passi delle Scritture in cui Dio appare nella collera, irato, sdegnato fino a punire con la rovina, la morte e l’annientamento chi contraddice la sua volontà e la sua legge, e non pochi sono i passi in cui Dio stesso, il nostro Dio, ordina l’uccisione, lo sterminio di uomini…
 
Nel II secolo d.C., quando ormai si imponeva una Chiesa fatta di gojim, di pagani passati alla fede in Gesù Cristo, Marcione, di fronte a queste difficoltà presentate soprattutto dall’Antico Testamento alla fede dei credenti, rigettò il Dio e le Scritture dell’Antico Testamento e cercò di vedere nel Dio di Gesù Cristo un Dio nuovo. Naturalmente il suo tentativo di epurare le Scritture non poté fermarsi all’Antico Testamento, ma continuò nella discriminazione dei libri del Nuovo Testamento. Una logica che mai può essere arrestata quando si intraprende la via marcionita…
 
Si può dire che da allora l’Antico Testamento ha sempre fatto problema ai cristiani che provengono dalle genti, e in ogni stagione ecclesiale, all’apparire di un’emergenza o di un’urgenza nella fede o nella Chiesa, spuntano i marcioniti e sempre appaiono «nuovi», perché ripartono ogni volta da capo nel contestare tutto ciò che precede il Cristo. Eppure la Chiesa con la sua grande tradizione non ha mai permesso di separare i due Testamenti, ha condannato chi lacera le Scritture, ha sempre proclamato che la parola di Dio è contenuta nelle Scritture di Israele e nelle Scritture dei cristiani in modo inseparabile. Tuttavia occorre ammettere che la violenza, il castigo, la vendetta di Dio o dei credenti restano un problema per molti lettori della Bibbia.
 
Sì, va detto con chiarezza: un cristiano che non sia ancora giunto alla piena maturità della fede fatica a conciliare queste espressioni bibliche di violenza con la sua fede e la sua preghiera. Gesù infatti ha chiesto: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano», «Benedite coloro che vi maledicono», ed è morto in croce pregando a favore dei carnefici. Ma allora, come è possibile restare fedeli a Gesù e alla sua legge, al suo spirito, e poi nella preghiera contraddire questa fedeltà radicale invocando il male, maledicendo i nemici nostri e di Dio, chiedendo per loro distruzione, annientamento, scomparsa? È conciliabile l’amore predicato da Gesù – amore universale, senza limiti né condizioni, fino al nemico – con l’uso nella preghiera, per esempio, del Salterio che contiene frequenti richieste di vendetta e imprecazioni contro i nemici?
 
A mio avviso il problema dei cosiddetti «salmi imprecatori», così com’è stato affrontato e «risolto» da oltre quarant’anni a questa parte – cioè con l’espunzione dalla preghiera liturgica –, ne pone un altro più vasto riguardante la preghiera e il pregare. È una preghiera, quella che fa a meno delle deprecazioni, assai poco biblica e alquanto ideologica, dunque ipocrita, lontana dalla parresia nel rapporto con Dio: verso Dio si grida, si urla nei momenti dell’angoscia, della disperazione, della violenza subita (Gesù grida sulla croce!). È una preghiera lontana dalla storia e dal reale male che l’attraversa, dai reali empi e malvagi che sono i prepotenti-onnipotenti che imperversano nella storia.
 
E qui occorre chiedersi: si crede che la preghiera è una potenza che agisce nella storia, una forza da opporre allo strapotere del male e dei malvagi? È una preghiera lontana dagli oppressi, dai poveri, dai senza mezzi, che sono il «pasto» quotidiano di ricchi, ingiusti e oppressori; lontana da una reale intercessione in favore degli oppressi: pregare contro l’oppressore è pregare con l’oppresso, è invocare e annunciare il giudizio di Dio nella storia e sulla storia. Ci può essere, in questo, una «parzialità» che disturba il nostro buonismo: in realtà si prega nella storia e non fuori della storia, e la storia non è già redenta, né tutta santificata, ma esige giudizio, opzione, discernimento.
 
Solo una visione angelicata della preghiera, una visione «sacrale», può togliere queste invettive! La preghiera è scegliere di stare dalla parte della vittima piuttosto che dell’aguzzino; di essere vittima dell’ingiustizia piuttosto che artefice di essa. Nei 150 salmi e nei numerosi cantici presenti nelle Scritture noi troviamo «parole contro» i nemici, dunque «preghiere contro» che possono creare delle difficoltà a noi cristiani. Nel Salterio abbondano queste espressioni in bocca a chi soffre, alla presenza di nemici, nemici suoi personali, nemici di Israele, oppure nemici di Dio: quei nemici che lo perseguitano, lo torturano, gli vogliono dare la morte.
 
Ma, non lo si dimentichi, sono imprecazioni presenti sempre in salmi di supplica, comunque sempre rivolte a Dio o confessate davanti a Dio. Per questo non sarebbe adeguato, anzi è improprio parlare di salmi «imprecatori», e non è giusto vedervi solo grida di vendetta: sono gemiti, urla, suppliche accorate formulate in situazioni di disperazione. Certamente sono suppliche a volte eccessive; ma chi può mai pesarle e condannarle, se non si è trovato nella stessa situazione di violenza sofferta nella propria persona? Che cosa grideremmo noi in simili situazioni? E soprattutto: grideremmo stando davanti a Dio, invocando lui?
 
Mutilare il Salterio per ragioni edificanti, mutilare l’Antico Testamento (ma verrà anche l’ora in cui in nome della «sensibilità della gente» si chiederà di purgare il Nuovo Testamento!) significa diventare più poveri di quella testimonianza in «carne e sangue» che è presente nella Bibbia. Di fronte al male operante nella storia le «preghiere contro», le invettive contenute nei salmi di supplica sono uno strumento di preghiera dei poveri, degli oppressi, dei giusti perseguitati: essi intervengono con le loro grida, visto che nella storia per loro non ci sono altri spazi! Con queste espressioni l’orante dà un giudizio sul male, lo discerne, lo condanna e chiede a Dio di intervenire per fare giustizia e castigare il malfattore.
 
Questi salmi sono in verità estremamente esigenti, perché sanciscono il principio in base al quale anche di fronte all’ingiustizia e al male subiti il credente si vieta di farsi giustizia e non cede alla tentazione di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, ma lascia fare alla giustizia di Dio. Non si dovrebbe poi dimenticare che all’interno dell’Antico Testamento i salmi imprecatori in verità costituiscono un radicale superamento della legge del taglione, che pure era già una misura di salvaguardia dalla vendetta senza fine, dalla faida illimitata. I passi imprecatori dei salmi e dei cantici biblici, se letti in verità, non ci portano a scandalizzarci ma ci danno invece una grande lezione: questi oranti mostrano una grande pazienza. Non si fanno giustizia da soli, non ricorrono a strumenti di guerra, anzi mettono un freno all’istinto di violenza e si affidano unicamente a Dio. Questa la loro fede: ecco da dove nasce il loro grido a Dio.
 

Enzo Bianchi