Una Vita per la Missione


"Incontrando il Papa mi sono liberata dalla vergogna"

05.04.2014 20:20

La Storia di Philomena Lee

La Chiesa? «Non provo più rancore, non avrei potuto vivere per 62 anni con quel sentimento dentro». All’indomani dell’incontro con Papa Francesco - «è stato un grande onore, è una persona speciale, mi ha commossa» – Philomena Lee si sente libera. Libera dalla «vergogna» portata addosso per decenni. 
 
La signora Lee oggi è 80enne irlandese e la sua vicenda è diventata un film («Philomena» per la regia di Stephen Frears), già grande successo di critica e botteghino e candidato a quattro Premi Oscar. Riavvolgiamo il nastro allora: nel 1952 Philomena, appena adolescente, rimase incinta. Come molte altre ragazze madri, venne mandata in un convento, dove fu costretta ad abbandonare il figlio dopo il parto. Il bambino fu mandato negli Stati Uniti, dove lei, con l’aiuto del giornalista Martin Sixsmith, lo ha cercato cinquanta anni dopo. 
 
All’indomani dell’udienza generale in Piazza San Pietro, Philomena parla in un hotel romano della sua storia, del suo passato e dell’emozione nel vedere il Pontefice. Non ha più «rancore» – dice – nei confronti della Chiesa cattolica, ma all’inizio del suo incubo si è sentita «ferita, triste, arrabbiata». 
 
Cosa ha provato incontrando il Papa? 
«Mi sono sempre sentita colpevole per aver avuto un figlio fuori dal matrimonio. Solo mio fratello conosceva la storia. E ieri (mercoledì, ndr), incontrando il Papa, mi sono sentita finalmente liberata, ho capito che non dovevo sentirmi più in colpa. Credo che Papa Francesco sarà con me nella lotta per aiutare migliaia di madri e bambini che cercano la verità sulla loro storia». 
 
Il film «Philomena» racconta fedelmente la sua storia? 
«Sì, è come l’ho raccontata dapprima al giornalista Martin Sixsmith e poi al regista Stephan Frears. Poi certo ci sono anche licenze artistiche: per esempio non ho fatto il viaggio negli Stati Uniti assieme al giornalista. Ma il succo della storia è proprio la mia storia».
 
Ha incontrato altre donne costrette, come lei, ad abbandonare un figlio? 
«No. In convento dovevamo rinunciare al nostro nome e prenderne un altro. Per tre anni io mi sono chiamata Marcela. E tutte le altre ragazze nella mia condizione che ho conosciuto in quell’epoca avevano nomi diversi dall’originale. Per questo anni dopo quando mi hanno chiesto se conoscevo questa o quella persona rispondevo “non lo so”, proprio perché ci conoscevamo con altri nomi. Avevamo però una cosa in comune: ci sentivamo in colpa per essere ragazze-madri. Anche per questo fra noi si comunicava poco. C’era solo una ragazza con cui ero riuscita a condividere la storia, ma ci siamo poi perse di vista».
 
Ritiene il Vaticano responsabile per quello che le è successo? 
«Ero molto giovane all’epoca, non mi sono posta questa domanda. Non so chi fosse responsabile, fino dove arrivasse la responsabilità. È andata come è andata. È successo molto tempo fa. Certo all’inizio, quando sono uscita, ero piuttosto delusa, arrabbiata, ferita, triste, ce l’avevo con tutti. Mi sono anche allontanata un po’ dalla fede. Ma non avrei potuto vivere per 62 anni col rancore. Sono poi diventata infermiera in un ospedale psichiatrico e lì ho conosciuto le sofferenze e il dolore di tante persone, un dolore anche peggiore del mio, e questo mi ha aiutato a mettere da parte la mia sofferenza. Non ho risentimento, non più almeno».
 
Iacopo Scaramuzzi 
 

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