
Una Vita per la Missione
La Missione continua
12PORTE - 28 febbraio 2013: Mentre la Chiesa universale attende un nuovo Papa, a livello locale prosegue il servizio del Vangelo. In particolare continua nella nostra città la Missione Giovani che si è aperta venerdì scorso e che si concluderà domenica mattina. 120 tra frati, suore e giovani stanno visitando molti degli ambienti frequentati dai giovani in città per portare l'annuncio del Vangelo. L'ampio servizio è di Luca Tentori e Francesca Casadei.
Testimonianza di P. Manuel João Pereira (comboniano)
Roma, Natale del Signore del 2013
Cari amici,
Avevo iniziato da tempo questa lettera, in cui dovevo comunicarvi la mia partenza (definitiva) da Roma verso il mio ultimo “posto di missione”. Mi ero pure congedato da molti di voi perché dovevo ritornare in Portogallo il 29 ottobre, destinato a Viseu, una città al centro-nord del paese, dove i miei confratelli avevano aperto recentemente una casa di accoglienza per malati e anziani. Sarebbe un ritorno alle mie origini, al punto di partenza della mia avventura missionaria. In questo nostro seminario di Viseu, infatti, avevo cominciato il mio percorso vocazionale nel lontano 1962, a soli dieci anni. Eccomi però ancora qui. All’ultimo momento si è presentata l’opportunità di una nuova terapia, e così la partenza da Roma è stata rimandata.
In tale circostanza mi ero fatto una rilettura di questa fase della mia vita, alla luce della vocazione del profeta Giona, letta nella liturgia di quei giorni. Questa figura mi accompagna da alcuni anni. Ricordo che il giorno in cui ho celebrato l’eucaristia di congedo da Roma nel 2001, la liturgia presentava precisamente le vicende di questo profeta. Al preparare le mie valigie, mi ero rivisto nei marinai che cercavano di alleggerire il carico gettando via il bagaglio… Ma soprattutto in Giona che si è fatto gettare in mare, al sentirmi chiamato ad abbandonarmi nelle mani del Signore nella nuova avventura del ritorno alla missione. Poi la figura della balena mi era ancora venuta in mente quando, tre anni fa, mi era stata diagnosticata la SLA. Ingoiato da questo “mostro”, nel suo ventre ho vissuto l’esperienza pasquale della tenerezza del Signore, disceso con me in questa “tomba”. E non ho avuto più paura!...
Adesso mi sembra di essere nella bocca della balena, addomesticata e diventata amica, quale pulpito da dove continuo la mia missione di annunciatore del vangelo. Guardo il mondo circostante attraverso i due occhi del “cetaceo”, che mi offrono due scenari molto diversi. Da uno, continuo a contemplare questa riva della vita, che seguito amando e apprezzando più che mai; dall’altro, lo sguardo può scrutare già l’orizzonte dell’altra riva: anche se alquanto avvolto dalla nebbia, la sua Luce attira sempre più.
Non so dove mi deporrà la balena, spinta da un misterioso disegno: se sulla spiaggia da dove sono partito più di 50 anni fa (Viseu) o direttamente sull’altra riva. O ancora… sulla sponda di una nuova e ignota missione?! Infatti, di notte mi spuntano le ali e viaggio tantissimo. Mi capita spesso di sognare di essere in nuove terre di missione, dove mi vedo ad imparare nuove lingue, a conoscere altre popolazioni, a iniziare nuove avventure!... Peccato che il “sogno” sia come la rugiada del mattino, che svanisce ai primi raggi di sole.
Che dirvi di più? Proseguo sereno e fiducioso la mia corsa nel ventre della misteriosa balena. Ventre sufficientemente spazioso da permettermi qualche scorreria con la nuova sedia a rotelle elettrica (la mia Ferrari!), con non pochi timori dei confratelli, che vorrebbero impormi dei limiti di velocità nelle mie scorribande attraverso i corridoi della nostra casa di Roma. Sono contento e felice come una pasqua! Grazie a tutti voi, che siete un riflesso della tenerezza di Dio verso di me. Grazie al mio angelo custode, padre Inácio, che ha generosamente messo a mia disposizione le sue mani e i suoi piedi.
Mi sa che mi conviene finire questa lettera, prima che il cetaceo cominci a sbadigliare di noia e mi riduca a polpette!...
Una felice e santa celebrazione della nascita del Bimbo di Dio! E per il nuovo anno 2014, direi a ciascuno di voi: “Lega il tuo carro a una stella”, quella di Betlemme, e ogni giorno del nuovo anno sarà illuminato. E in ogni evento – per quanto oscuro e minaccioso - troverai una nuova opportunità di vita, perché tutto diventa grazia! Com’è stata per me la malattia!
A tutti voi auguro, quindi, occhi illuminati per cogliere le OPPORTUNITÀ che vi offrirà il nuovo anno!
Vostro,
P. Manuel João Pereira (comboniano)
ANNALENA TONELLI
“Grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare
a gridarlo così fino alla fine!”
Il 5 ottobre scorso ricorreva il decimo anniversario del ‘martirio’ di ANNALENA TONELLI, missionaria cattolica italiana, la “Madre Teresa” dei Somali. È stata una donna eccezionale, che ha vissuto in silenzio la radicalità evangelica per 35 anni in terra mussulmana, totalmente consacrata ai più poveri. Insignita dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati del prestigioso premio Nansen per l’assistenza ai profughi, il 25 giugno 2003, fu assassinata il 5.10.2003. Annalena non ha mai amato parlare di sé, ma in occasione di un convegno sul volontariato, ha dato questa bellissima, straordinaria e commovente testimonianza (30 novembre 2001). Per facilitare la lettura abbiamo diviso il testo in capitoletti.
Scelsi di essere per gli altri.
Mi chiamo Annalena Tonelli. Sono nata in Italia a Forlì il 2 Aprile 1943. Lavoro in sanità da trent’anni, ma non sono medico. Sono laureata in legge in Italia. Sono abilitata all’insegnamento della lingua inglese nelle scuole superiori in Kenya. Ho certificati e diplomi di controllo della tubercolosi in Kenya, di Medicina Tropicale e Comunitaria in Inghilterra, di Leprologia in Spagna. Lasciai l’Italia a gennaio del 1969. Da allora vivo a servizio dei Somali. Sono trent’anni di condivisione. Ho infatti sempre vissuto con loro a parte piccole interruzioni in altri paesi per causa di forza maggiore. Scelsi di essere per gli altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati che ero una bambina e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: LUI e i poveri in LUI. Per LUI feci una scelta di povertà radicale... anche se povera come un vero povero, i poveri di cui è piena ogni mia giornata, io non potrò essere mai.
Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamento di contributi volontari per quando sarò vecchia. Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per DIO. Era una esigenza dell’essere quella di non avere una famiglia mia. E così è stato per grazia di DIO. Ho amici che aiutano me e la mia gente da più di trent’anni. Tutto ho potuto fare grazie a loro, soprattutto gli amici del Comitato per la lotta contro la fame nel mondo di Forlì. Naturalmente ci sono anche altri amici in diverse parti del mondo. Non potrebbe essere diversamente. I bisogni sono grandi. Ringrazio Dio che me li ha donati e continua a donarmeli. Siamo una cosa sola su due brecce, diverse nella apparenza ma uguali nella sostanza: lottiamo perché i poveri possano essere sollevati dalla polvere e liberati, lottiamo perché gli uomini TUTTI possano essere una cosa sola.
Lasciai l’Italia dopo sei anni di servizio ai poveri di uno dei bassifondi della mia città natale, ai bambini del locale brefotrofio, alle bambine con handicap mentale e vittime di grossi traumi di una casa famiglia, ai poveri del terzo mondo grazie alle attività del Comitato Per La Lotta Contro La Fame Nel Mondo che io avevo contribuito a far nascere. Credevo di non poter donarmi completamente rimanendo nel mio paese... i confini della mia azione mi sembravano così stretti,asfittici... compresi presto che si può servire e amare dovunque, ma ormai ero in Africa e sentii che era DIO che mi ci aveva portata e lì rimasi nella gioia e nella gratitudine.
Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatre anni dopo grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così fino alla fine. Questa la mia motivazione di fondo assieme ad una passione invincibile da sempre per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato al di là della razza, della cultura, e della fede. Tento di vivere con un rispetto estremo per i “loro” che il Signore mi ha dato. Ho assunto fin dove è possibile un loro stile di vita. Vivo una vita molto sobria nell’abitazione, nel cibo, nei mezzi di trasporto, negli abiti. Ho rinunciato spontaneamente alle abitudini occidentali. Ho ricercato il dialogo con tutti. Ho dato CARE: amore, fedeltà e passione. Il Signore mi perdoni se dico delle parole troppo grandi.
Vivo calata profondamente in mezzo ai poveri, ai malati, a quelli che nessuno ama.
Sono praticamente sempre vissuta con i Somali, prima con i somali del Nord-Est del Kenya, dopo con i Somali della Somalia. Vivo in un mondo rigidamente mussulmano. Gli unici frati e suore presenti in Somalia dai tempi di Mussolini fino alla guerra civile, scoppiata undici anni fa, furono accettati esclusivamente per il servizio religioso agli Italiani. Ho vissuto gli ultimi cinque anni a Borama, nell’estremo Nord-ovest del paese, sul confine con l’Etiopia e Djibouti. Là non c’è nessun cristiano con cui io possa condividere. Due volte all’anno, intorno a Natale e intorno a Pasqua, il vescovo di Djibouti viene a dire la Messa per me e con me. Vivo sola perché le compagne di strada, che assieme ai poveri fecero della mia vita un paradiso in terra durante i miei diciassette anni di deserto, si dispersero dopo che io fui costretta a lasciare il Kenya. Fu nel 1984. Il governo del Kenya tentò di commettere un genocidio a danno di una tribù di nomadi del deserto. Avrebbero dovuto sterminare cinquantamila persone. Ne uccisero mille. Io riuscii a impedire che il massacro venisse portato avanti e a conclusione. Per questo un anno dopo fui deportata.
Tacqui nel nome dei piccoli che avevo lasciato a casa e che sarebbero stati puniti se io avessi parlato. Parlarono invece i Somali con una voce e lottarono perché si facesse luce e verità sul genocidio. Sono passati sedici anni e il Governo del Kenya ha ammesso pubblicamente la sua colpa, ha chiesto perdono, ha promesso compensazioni per le famiglie delle vittime. I giornali e la BBC hanno parlato a lungo del mio intervento. E oggi molti dei Somali che avevano remore contro di me mi hanno accettato e sono diventati miei amici. Oggi sanno che ero pronta a dare la vita per loro, che ho rischiato la vita per loro. Al tempo del massacro, fui arrestata e portata davanti alla corte marziale...
Le autorità, tutti non Somali, tutti cristiani, mi dissero che mi avevano fatto due imboscate a cui ero provvidenzialmente sfuggita, ma che non sarei sfuggita una terza volta... poi uno di loro, un cristiano praticante, mi chiese che cosa mi spingeva ad agire così. Gli risposi che lo facevo per Gesù Cristo che chiede che noi diamo la vita per i nostri amici. Ora io ho esperimentato più volte nel corso della mia ormai lunga esistenza che non c’è male che non venga portato alla luce, non c’è verità che non venga svelata. L’importante è continuare a lottare come se la verità fosse già fatta e i soprusi non ci toccassero, e il male non trionfasse. Un giorno il bene risplenderà. A DIO chiediamo la forza di saper attendere, perché può trattarsi di lunga attesa... anche fino a dopo la nostra morte. Io vivo nell’attesa di DIO e capisco che mi pesa meno che ad altri, l’attesa delle cose degli uomini. Vivo calata profondamente in mezzo ai poveri, ai malati, a quelli che nessuno ama.
Mi occupo principalmente di controllo e cura della Tubercolosi. In Kenya andai come insegnante perché era l’unico lavoro che, all’inizio di una esperienza così nuova e forte, potevo svolgere decentemente senza arrecare danni a nessuno. Furono tempi di intensa preparazione delle lezioni di quasi tutte le materie, per carenza di insegnanti, di studio della lingua locale, della cultura e delle tradizioni di coinvolgimento intenso nell’insegnamento nella profonda convinzione che la cultura è forza di liberazione e di crescita. Gli studenti, molti della mia stessa età o appena poco più giovani di me, e che avevano affrontato il preside quando si era saputo che una donna insegnante sarebbe arrivata assicurandolo che mi avrebbero impedito accesso alla classe, furono profondamente coinvolti e motivati. I risultati furono ottimi tanto che vari studenti di allora oggi occupano splendide posizioni nei vari Ministeri, al Governo, nelle attività private del paese e spesso mi giunge eco che tutti gli studenti del Nord-Est di quei tempi narrano di essere stati miei studenti ed io la loro insegnante... cosa naturalmente non vera. Ricordo che quasi subito dopo il mio arrivo mi innamorai di un bimbo ammalato di sickle cell e di fame... erano i tempi di una terribile carestia vidi tanta gente morire di fame. Nel corso della mia esistenza, sono stata testimone di un’altra carestia, dieci mesi di fame, a Merca, nel sud della Somalia, e posso dire che si tratta di esperienze così traumatizzanti da mettere in pericolo la fede. Avevo preso, a vivere con me, quattordici bambini con le malattie della fame. Donai subito il sangue a quel bimbo e supplicai i miei studenti di fare altrettanto... uno di loro donò e dopo di lui tanti altri, vincendo così la resistenza dei pregiudizi e delle chiusure di un mondo che, ai miei occhi di allora, sembrava ignorare qualsiasi forma di solidarietà e di pietà. E fu forse la mia prima esperienza in cui, anche in un contesto islamico, l’amore generò amore.
Il mio primo amore.
Ma il mio primo amore furono i tubercolosi, la gente più abbandonata, più respinta, più rifiutata in quel mondo. La tubercolosi imperversa da secoli in mezzo ai Somali. Si pensa che praticamente tutta la popolazione sia infettata. Provvidenzialmente solo una percentuale delle persone infettate sviluppa la malattia nel corso della sua esistenza. Ero a Wajir, un villaggio desolato nel cuore del deserto del Nord-Est del Kenya, quando conobbi i primi tubercolosi e mi innamorai di loro e fu amore per la vita. I malati di tubercolosi erano in un reparto da disperati. Quello che più spaccava il cuore era il loro abbandono, la loro sofferenza senza nessun tipo di conforto. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a portare loro l’acqua piovana che raccoglievo dai tetti della bella casa che il governo mi aveva dato come insegnante alla scuola secondaria. Andavo con le taniche piene, svuotavo i loro recipienti con l’acqua salatissima dei pozzi di Wajir, e li riempivo di quell’acqua dolce. Loro mi facevano cenni di comando apparentemente disturbati dalla goffaggine di quella giovane donna bianca della cui presenza sembravano volersi liberare in fretta. Tutto mi era contro allora.
Ero giovane e dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca e dunque disprezzata da quella razza che si considera superiore a tutti: bianchi, neri. gialli appartenenti a qualsiasi nazionalità che non sia la loro. Ero cristiana e dunque disprezzata, rifiutata, temuta. Tutti allora erano convinti che io fossi andata a Wajir per fare proseliti. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore per nessuno, anzi è un non valore. Trent’anni dopo, per il fatto che non sono sposata, sono ancora guardata con compassione e con disprezzo in tutto il mondo somalo che non mi conosce bene. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro e sono madre autentica di tutti quelli che ho salvato, guarito, aiutato, facendo passare così sotto silenzio la realtà che io madre naturale non sono e non sarò mai. Subito cominciai a studiare, ad osservare, ero ogni giorno con loro, li servivo sulle ginocchia, stavo accanto a loro quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro, che li guardasse negli occhi, che infondesse loro forza.
Dopo qualche anno, nella T.B. Manyatta (villaggio) ogni malato consapevole di essere alla fine, voleva solo me accanto per morire sentendosi amato. Cominciai a supervisionare i loro trattamenti una volta che erano dimessi dall’ospedale. La cosa fu risaputa. Non si conoscevano trattamenti portati a termine nel deserto. Erano tutti defaulters: al 100%. Nel 1976 mi fu chiesto di diventare responsabile di un progetto dell’OMS per la cura della tubercolosi in mezzo ai nomadi, un progetto pilota in tutta l’Africa. Mi fu chiesto di inventare un sistema per garantire che i malati avrebbero preso le terapie antitubercolari ogni giorno per un periodo di sei mesi. Infatti, per la prima volta in Africa, furono applicati i trattamenti a breve termine per un numero aperto di ammalati, trattamenti che consentono la guarigione in un tempo di sei mesi mentre fino ad allora per guarire erano necessari diciotto mesi di farmaci presi ogni giorno.
Era il settembre del 1976. Decisi di invitare i nomadi a fermarsi in un pezzo di deserto di fronte al “Rehabilitation Centre for the Disabled” dove lavoravo assieme alle compagne che nel corso degli anni si erano unite a me, tutte volontarie senza stipendio, tutte per i poveri e per Gesù Cristo. Assieme a loro avevo dato vita a un centro dove loro riabilitarono tutti i poliomielitici del deserto del Nord-Est nel corso di dieci anni. Eravamo una famiglia. Accoglievamo, oltre ai poliomielitici, casi particolarmente pietosi da curare, riabilitare, creature particolarmente ferite: ciechi, sordomuti, handicappati fisici e mentali... i ragazzi crebbero con noi mamme a tempo pieno ed io sono a tutt’oggi per loro un punto di riferimento costante. Intanto i nomadi cominciarono a venire con le loro capanne legate sulla groppa dei cammelli. Smontavano le stuoie, i bacchetti curvi, le corde, e costruivano la capanna. Per sei mesi l’ingestione dei farmaci era strettamente supervisionata ogni giorno. Le diagnosi venivano fatte solo con l’esame dello sputo al microscopio. Le forniture dei farmaci erano assolutamente regolari... quasi un miracolo per l’Africa. Al termine dei sei mesi, arrivava il cammello o l’intera carovana e il malato guarito se ne tornava nel deserto. Questa “policy” che l’OMS chiama DOTS (directly observed therapy short chemotherapy) è diventata la “global policy” dell’OMS per il controllo della tubercolosi nel mondo ed è applicata in molti paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America e anche dell’Europa come uno dei migliori mezzi per garantire la collaborazione dell’ammalato, senza la quale non esiste guarigione autentica, e senza la quale la piaga della Tubercolosi continuerà ad espandersi nel mondo intero sempre più nella forma più tragica che è quella della resistenza ai farmaci antitubercolari. Quella della T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di DIO. Fu grazie alla T.B. Manyatta, e solo in parte al Rehabilitation Centre, perché gli handicappati contano ancora meno dei tubercolosi nel mio mondo, che la gente cominciò a dire che forse anche noi saremmo andate in Paradiso.
Il dialogo è vita vissuta, meglio, senza parole.
Per cinque anni ci avevano sbattuto in faccia che noi non saremmo mai andate in Paradiso perché non dicevamo: “Non c’è DIO all’infuori di DIO e Muhamad è il suo profeta”. Poi successe un episodio grave che mise a rischio la nostra vita e allora la gente cominciò a dire che sicuramente anche noi saremmo andate in Paradiso. Poi cominciammo a essere portate come esempio. Il primo fu un vecchio capo che ci voleva molto bene ... “Noi Mussulmani abbiamo la fede”, ci disse un giorno,”e voi avete l’amore”. Fu come il tempo del grande disgelo. La gente diceva sempre più frequentemente che loro avrebbero dovuto fare come facevamo noi, che loro avrebbero dovuto imparare da noi a interessarsi per gli altri, in particolare per quelli più malati, più abbandonati.
Diciassette anni dopo, subito dopo il massacro di Wagalla, un vecchio arabo mi fermò al centro di una delle strade principali del povero villaggio, profondamente commosso perché in mezzo ai morti c’erano suoi amici, perché mi aveva visto quando mi avevano picchiato perché sorpresa a seppellire i morti mentre lui aveva avuto paura e non aveva fatto nulla per salvare i suoi invece io avevo tutto osato e rischiato per salvare la vita dei loro che erano diventati miei, e gridò perché voleva essere sentito da tutti: “Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in Paradiso”. A Borama, dove vivo oggi, la gente prega intensamente perché io mi converta al mussulmanesimo. Anche negli altri luoghi dove sono stata la gente a un certo punto cominciava a pregare per la mia conversione al mussulmanesimo. Me ne parlano spesso ma con delicatezza, aggiungono sempre che comunque DIO sa ed io andrò in Paradiso anche se rimarrò cristiana. Non vogliono che io mi senta ferita. E poi cercano di farmi sentire “assimilata” a loro, vicinissima. Mi raccontano ogni hadith in cui il profeta Muhamad sulle orme di Issa, Gesù, mangiava con i lebbrosi nello stesso piatto, aveva compassione dei poveri, mostrava amore per i piccoli. Sono tornata in Italia per un mese a giugno di quest’anno. Mancavo da molti anni. Per la mia gente laggiù è stato un evento. Molti hanno temuto che qualcuno o qualcosa mi avrebbero impedito di tornare. Grande è stata la gioia di vedermi.
E lo sheekh più amato, uno sheekh che è stato e continua ad essere l’insegnante di Corano per tutti gli altri sheekh della zona, è subito venuto nel mio ufficio e mi ha detto che, quando ero a Roma - per loro c’è quasi solo Roma in Italia - loro erano felici e condividevano nel pensiero e nella preghiera il mio pellegrinaggio, perché di autentico pellegrinaggio si trattava. Loro, continuava a ripetermi Sheekh Abdirahman, giustamente orgoglioso della sua conoscenza, sanno che a Roma sono sepolti alcuni dei discepoli di Issa, Gesù, il loro grande profeta. Visitare i luoghi del loro martirio è uno dei pellegrinaggi che ogni mussulmano vorrebbe fare nel corso della sua vita. Ed è stato così che loro sentivano che erano loro ad avermi mandato in pellegrinaggio e mi attendevano perché raccontassi e condividessi. In senso molto più lato, il dialogo con le altre religioni è questo. È condivisione. Non c’è bisogno quasi di parole. Il dialogo è vita vissuta, meglio, almeno io lo vivo così, senza parole.
Servo gli ammalati sulle ginocchia.
Dicevo che la tubercolosi è flagello nel mondo somalo. Pensate che a Borama, un centro con cinquantamila persone, noi abbiamo diagnosticato e trattato millecinquecento malati all’anno, quasi il 100% con sputo positivo soprattutto i primi anni. Ora abbiamo il problema dell’AIDS. Sono solo tre anni che vediamo malati con TBC e HIV, ma il problema sta dilagando. Eravamo scesi a ottocento malati l’anno scorso, ma la presenza di HIV sta facendo risalire paurosamente la china. In un paese come la Somalia in cui la tubercolosi è endemica, la prima infezione opportunistica che gli ammalati di HIV sviluppano è la tubercolosi. Noi lavoriamo intensamente perché la popolazione divenga consapevole del problema e lotti dentro e fuori di sé perché i comportamenti vengano cambiati e la diffusione dell’HIV arginata.
Cominciai cinque anni fa con trenta posti letto e un numero sempre maggiore di capanne per gli ammalati gravi che non potevano trovare un letto in reparto, fino ad averne più di duecento. Oggi ho duecento posti letto, otto reparti nuovi che l’UNHCR ha costruito per la nostra gente, un laboratorio costruito da UNDP e ancora quasi cento capanne per gli ammalati che non trovano luogo in cui essere accolti nel villaggio; alcuni vengono da lontano, dall’Etiopia, da Djibouti, da altre parti del paese, altri vengono respinti dalle famiglie a causa dello stigma legato alla malattia. La tubercolosi è parte della gente, della sua storia, della sua lotta per l’esistenza. Eppure la tubercolosi è stigma e maledizione: segno di una punizione mandata da DIO per un peccato commesso, aperto o nascosto. A Borama continua la lotta ogni giorno per la liberazione dall’ignoranza, dallo stigma, dalla schiavitù ai pregiudizi. A tutt’oggi, noi siamo testimoni di gente che sceglie di non essere diagnosticata, curata e guarita, e che dunque sceglie di morire PUR di non dovere ammettere in pubblico di essere affetta dalla Tubercolosi.
La lotta viene portata avanti dallo staff (il personale) prima di tutto a livello personale. Con il sistema del DOTS, noi vediamo tutti gli ammalati ogni giorno, ogni giorno parliamo con loro, ogni giorno ci occupiamo dei loro problemi piccoli e grandi. Ogni giorno discutiamo con loro di ciò che li tiene schiavi, infelici, nel buio. E loro si liberano, diventano felici, sono sempre più nella luce. Nel centro T.B. abbiamo aperto scuole per gli ammalati e i loro amici: una scuola di Corano, una scuola di alfabetizzazione, una scuola di lingua Inglese. Sono trent’anni che io mi occupo di scuole: le organizzo, se necessario le costruisco, le finanzio. La creatura capace di vivere in DIO è sicuramente un evento di grazia. Resta tuttavia la realtà che con l’educazione l’uomo fiorisce più facilmente in una creatura capace di vivere in DIO suo creatore e datore di ogni bene. Gli ammalati arrivano a noi come esseri mortificati, sofferenti, impauriti, calpestati, infelici. Dopo le prime settimane di cura, appena si sentono meglio, vorrebbero fuggire e tornare alla boscaglia, ai loro cammelli, alle loro capre, ai loro campi di miglio.
Nella “scuola” dei colloqui con lo staff (il personale) ogni giorno, nelle scuole di alfabetizzazione, di Corano, di lingua inglese, acquistano fiducia, capiscono i motivi della necessità di completare le cure, dell’assunzione dei farmaci sotto supervisione, non soffrono più, non hanno più paura dalla TBC si guarisce e si diventa forti, ancora più forti dei loro famigliari, dei loro amici e conoscenti una volta guariti, la tbc non si diffonderà ai loro figli, alle loro mogli. Prima non sapevano né leggere né scrivere, prima non sapevano quasi nulla della loro religione, ora sanno, la conoscono in traduzione, imparano a capire e ad apprezzare i valori universali del bene, della verità, della pace, dell’abbandono in DIO: “Allah ha dato, Allah ha tolto, sia benedetto il nome di Allah”, imparano ad affrontare la sofferenza fisica e la morte, a non temerle, non rifiutarle, ad accettarle: ALLAH c’è! ALLAH sa, conosce, guida. Ne parliamo insieme ogni giorno, ci consoliamo reciprocamente, troviamo forza e fiducia in questa consapevolezza acquistata e riacquistata e conquistata ogni giorno, e la loro vita cambia, e la nostra vita cambia in una consapevolezza sempre più profonda, in una capacità di vivere alla presenza di DIO sempre più autentica.
“Ero cieco ed ora vedo”.
Sei mesi dopo ci sono ammalati che chiedono di poter essere ammessi a continuare a frequentare il centro per poter completare un corso di scuola, per poter completare lo studio del Corano e tutti si sentono maestri e orgogliosi mostrano agli altri le loro conquiste, i loro raggiungimenti, la loro crescita in dignità umana. Io intanto condivido la loro vita, mi occupo di tutti gli aspetti delle loro cure, studio ogni giorno i testi di medicina per imparare a guarirli, per aggiornarmi, cerco medici e infermieri, faccio ricerca di fondi perché non ho accesso ai fondi delle ONG, essendo una persona sola senza organizzazione, servo gli ammalati sulle ginocchia, faccio molte ore di lezione allo staff infermieristico per renderlo più sensibile, più attento, più capace di CARE (sollecitudine), più capace professionalmente. Ed è grazie a questo staff (personale) sensibile, attento, che al T.B.Centre facciamo anche una clinica per gli epilettici e per i malati con disturbi mentali. Sono gli “indemoniati” di questo mondo. Ce li portano in catene, sporchi dei loro escrementi, spesso urlanti. Dopo pochi giorni di cura e di cura si liberano dalle catene, cominciano a lavarsi, piano piano vengono senza accompagnatori a prendere i loro farmaci, lentamente fioriscono in persone normali. Ed è grazie a due infermiere-ostetriche nel mio staff e a due sheekhs, i più amati e rispettati che lavorano in stretta collaborazione con noi, che nella regione portiamo avanti una grossa campagna per l’eradicazione delle mutilazioni genitali femminili e dell’infibulazione che nel nostro mondo sono praticate al 100%. Ed è sempre grazie allo staff veramente unico che noi ci facciamo promotori due volte all’anno di un Eye Camp. Viene un equipe di specialisti degli occhi, amici da tanti anni. Nel giro di quattro giorni operano una media di trecentotrenta ciechi soprattutto da cataratta usando la lente intraoculare. Durante l’ultimo camp dell’agosto scorso hanno superato se stessi: hanno, infatti, restituito la vista a quattrocentocinquanta ciechi. La gente è infinitamente grata per questo servizio. Noi riempiamo Borama di bandiere: “Ero cieco ed ora vedo”... il nostro Giovanni, ma loro non sanno.
In lontananza, una luce così sfolgorante da far scoppiare il cuore di gioia.
Ma veniamo alla scuola dei bambini sordi. Quattro anni fa, il primo bambino somalo kenyota non udente dalla nascita che avevo portato a scuola con educazione speciale per i sordi in Kenya quando aveva quattro anni, ormai diventato uomo, venne a trovarmi a Borama dopo un viaggio avventuroso di quasi un mese attraverso il Kenya e poi l’Etiopia. Aveva delle sue pene d’amore e aveva sentito l’urgenza di parlarne con me che gli avevo fatto in qualche modo da mamma e che l’avevo aiutato a fidanzarsi. Subito decise di rimanere e insieme demmo vita ad una scuola per i bambini sordi. Ora, in Somalia non c’è mai stata Educazione Speciale. Mai è stata aperta una scuola per i bambini sordi, per i bambini ciechi, per i bambini con handicap mentale. Professori universitari fino a che hanno visto la nostra scuola non credevano che fosse possibile educare un bambino sordo. Nessuno qui lo credeva possibile. Oggi tutti sanno che non c’è nulla che un bambino sordo non possa fare eccetto che udire, non c’è nulla che un bambino sordo non possa imparare, non c’è nulla che un bambino sordo non possa sentire, non possa capire... certo si tratta di strada lunga, ma già noi vediamo una luce forse ancora un po’ pallida, ma in lontananza è una luce così sfolgorante da far scoppiare il cuore di gioia e di gratitudine nell’anticipazione di quello che sarà un giorno ormai non più lontano... nuovi cieli e una nuova terra...
Nella nostra scuola cominciammo con tre bambini sordi, poi cinque, poi otto, poi dodici oggi ne abbiamo cinquantadue. Cominciammo ad insegnare in una stanza della casetta che io affitto a Borama, poi costruimmo una tettoia all’esterno, perché i bambini crescevano, poi costruimmo un’altra stanzetta nel recinto della casa. Nel frattempo alcuni bambini con handicap fisico, vittime della polio e della guerra vennero a supplicarci di accoglierli nella nostra scuola perché avevano paura di frequentare le scuole per i bambini normali. È un mondo duro il nostro, il mondo dei forti... non esiste uno spazio per i deboli. Decidemmo di accoglierli, dicemmo loro che, quando avessero acquistato fiducia in se stessi... il fatto di sapere come gli altri e meglio degli altri avrebbe inevitabilmente dato loro la forza di ergersi e di sentirsi come gli altri, avremmo pagato loro le tasse per frequentare le scuole normali. Impiegammo un ottimo maestro per loro. Nel frattempo, i primi bambini tbc erano guariti ed erano stati dimessi e, dopo avere imparato ed essere fioriti nelle scuole del TB Centre, volevano continuare ad imparare ma molti di loro non avevano il danaro per pagare le tasse scolastiche. E fu così che decidemmo di accoglierli in classe assieme ai bambini handicappati. Nel frattempo la gente parlava sempre più di noi, dei miracoli che avvenivano nella nostra scuola. E fu così che l’Alto Commissariato per i Rifugiati si offrì di costruirci una vera scuola.
Nel 1998 costruirono quattro classi, un ufficio per i maestri, un piccolo magazzino e i gabinetti. Poi gli amici di Forlì costruirono altre due classi, poi alcuni amici protestanti inglesi conosciuti per una serie di circostanze provvidenziali, gente umile e generosa, che mi prega di non mandare tanti dettagli quando faccio il resoconto di come ho speso il loro danaro, che mi dice che va tutto bene, che tutto è bello, che tutto è dono del Signore, costruirono tre classi e due gabinetti, e poi ancora gli amici di Forlì hanno costruito una classe. Nel pezzo di terra che la comunità ci diede c’è ancora posto per una classe.
Da due anni abbiamo accolto trenta bambini appartenenti ad un clan disprezzato dei Somali: sono i lavoratori del ferro, del cuoio, i barbieri, i cacciatori di piccola selvaggina. Non hanno mai mandato i loro bambini a scuola. Sono ghettizzati, le loro figlie non sposano somali di altri clan, i loro figli non sposano ragazze di altri clan. Loro si ribellano contro DIO e contro gli uomini per la loro condizione di rifiutati, di disprezzati, di emarginati. Sono dei grandi lavoratori. E’ successo che molti di loro erano malati di tbc, ed è così che hanno avuto l’opportunità di andare a scuola nel centro TB, di assaporare la bellezza, la grandezza, la gioia di imparare, di capire, di evolversi, di crescere, di liberarsi ed è così stato spontaneo per loro chiedere che noi accettassimo di educare i loro figli, questi figli che da secoli cominciano a lavorare che sono i bambini e faticano come nessun altro bambino fatica e si guadagnano il riso quotidiano con il sudore della fronte. È successo poi che alcuni intellettuali e poi alcuni ricchi sono venuti a supplicarci di accogliere i loro figli nella nostra scuola perché è una scuola seria, perché da noi c’è disciplina, perché i maestri sono impegnati, amano i bambini, amano l’insegnamento, si preparano e noi abbiamo deciso di accettarli... sono pochi.
‘Ut Unum Sint’: è stata ed è l’agonia amorosa della mia vita.
Oggi la scuola è una bellissima mescolanza di bambini di ogni provenienza, di ogni storia, di ogni capacità. I bambini sordi studiano naturalmente in classi separate di pochi bambini l’una, ma, durante i tempi del gioco, i bambini sordi e i bambini “normali” sono insieme ed è questa una delle esperienze più consolanti, più incoraggianti, più capaci di donare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola. Questo dell’UT UNUM SINT è stata ed è l’agonia amorosa della mia vita, lo struggimento del mio essere. È una vita che combatto e mi struggo, come diceva Gandhi, mio grande maestro assieme a Vinoba, dopo Gesù Cristo, che combatto, io povera cosa, per essere buona, veritiera, non violenta nei pensieri, nella parola, nell’azione. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola.
Ogni giorno al TB Centre noi ci adoperiamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare... oh, il perdono, come è difficile il perdono! I miei mussulmani fanno anche tanta fatica ad apprezzarlo, a volerlo per la loro vita, per i loro rapporti con gli altri... loro dicono che la loro religione è così fudud: così poco esigente. Dio chiede all’uomo, dicono, di perdonare, ma se poi l’uomo non ne è capace, DIO è misericordioso. Ogni giorno noi lottiamo per comprendere e far comprendere che la colpa non è mai da una sola parte ma da ambedue le parti, noi ragioniamo insieme e ci sforziamo di vedere tutto quello che è positivo nell’altro, noi ci guardiamo in faccia, negli occhi perché vogliamo che si faccia la verità... il mio staff ha imparato a ridere dei suoi limiti, delle sue meschinità, della sua mentalità ‘monetaria’, della durezza del loro cuore, della sete di vendicarsi quando sono feriti: tutte cose, queste, che rendono così difficile il perdono... certamente, dicono, Allah non vuole tutto questo, anche se Allah è infinitamente misericordioso. Io, da parte mia, da lunghi anni ho imparato o meglio ho capito nel profondo dell’essere che, quando c’è qualcosa che non va: incomprensioni, attacchi, ingiustizie, inimicizie, persecuzioni, divisioni, sicuramente la colpa è la mia, sicuramente c’è qualcosa che io ho sbagliato.
Ai piedi di DIO, la ricerca della mia colpa è facile, non prende tempo, fa soffrire ma non poi così tanto, perché è poi così bello e grande riconoscersi colpevoli e combattere perché la colpa venga cancellata, perché i comportamenti sbagliati vengano riformati, perché in ogni relazione con gli altri l’approccio divenga positivo... il nostro compito sulla terra è di far vivere. E la vita non è sicuramente la condanna, lo ius belli, l’accusa, la vendetta, il mettere il dito nella piaga, il rivelare gli sbagli, le colpe degli altri, il tenere nascosta invece la nostra colpa, l’impazienza, l’ira, la gelosia, l’invidia, la mancanza di speranza, la mancanza di fiducia nell’uomo. La vita è sperare sempre, sperare contro ogni speranza, buttarsi alle spalle le nostre miserie, non guardare alle miserie degli altri, credere che DIO c’è e che LUI è un DIO d’amore. Nulla ci turbi e sempre avanti con DIO. Forse non è’ facile, anzi può essere una impresa titanica credere così. In molti sensi è un tale buio la fede, questa fede che è prima di tutto dono e grazia e benedizione... Perché io e non tu? Perché io e non lei, non lui, non loro? Eppure la vita ha senso solo se si ama. Nulla ha senso al di fuori dell’amore.
Solo l’amore ha un senso.
La mia vita ha conosciuto tanti e poi tanti pericoli, ho rischiato la morte tante e poi tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho esperimentato nella carne dei miei, di quelli che amavo, e dunque nella mia carne, la cattiveria dell’uomo, la sua perversità, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare. Se anche DIO non ci fosse, solo l’amore ha un senso, solo l’amore libera l’uomo da tutto ciò che lo rende schiavo, in particolare solo l’amore fa respirare, crescere, fiorire, solo l’amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla, che noi porgiamo la guancia ancora non ferita allo scherno e alla battitura di chi ci colpisce perché non sa quello che fa, che noi rischiamo la vita per i nostri amici, che tutto crediamo, tutto sopportiamo, tutto speriamo ... Ed è allora che la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Ed è allora che la nostra vita diventa bellezza, grazia, benedizione. Ed è allora che la nostra vita diventa felicità anche nella sofferenza, perché noi viviamo nella nostra carne la bellezza del vivere e del morire. Sento fortemente che noi tutti siamo chiamati all’amore, dunque alla santità... la donna povera di Leon Bloy vagava di porta in porta... una mendicante... “Non c’è che una sola tristezza al mondo: quella di non essere santi” ... ripeteva ... Io amo pensare: non c’è che una sola tristezza al mondo: quella di non amare... che poi è la stessa cosa. Certo dobbiamo liberarci di tanta zavorra. Ma ci sono metodi pratici, ci sono strade, ci sono indicazioni chiare, c’è DIO nella celletta della nostra anima che ci chiama. Tuttavia la sua è una piccola silenziosa voce. Noi dobbiamo metterci in ascolto, dobbiamo fare silenzio, dobbiamo crearci un luogo di quiete, separato, anche se spesso necessariamente vicino agli altri come una mamma che non può stare troppo a lungo lontana dai suoi bambini. Infatti, per amare non sempre basta il nostro cuore, il nostro desiderio, la nostra sete di DIO. È parte dell’esperienza di chiunque decide di mettersi a servizio dei poveri che i poveri non sono facili da amare e che il cuore dell’uomo, anche di quello che si dona, può essere misteriosamente molto duro.
Cose grandi ha fatto in me colui che è potente.
A Wajir eravamo una comunità di sette donne, tutte, sia pure in maniera e in misura diverse, avevamo sete di DIO, e capivamo che quando perdevamo o stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, potevamo ritrovare i beni perduti solo ai piedi del Signore. Per questo, avevamo costruito un eremo e là andavamo per un giorno, o più giorni o per periodi anche lunghi di silenzio ai piedi di DIO. Là ritrovavamo equilibrio, quiete, lungimiranza, saggezza, speranza, forza per combattere la battaglia di ogni giorno prima di tutto con tutto ciò che ci tiene schiavi dentro, che ci tiene nel buio. Uscivamo di là che ci sentivamo incendiate di amore rinnovato per tutti quelli che il Signore aveva messo nella nostra strada... a volte ce lo confidavamo... il più delle volte tacevamo, ...ma i volti delle mie compagne erano così belli, così luminosi, che mi narravano tutto quello che il pudore impediva di comunicarmi con le parole.
Poi, nel corso di questa ormai mia lunga vita, ci sono stati altri eremi, altri silenzi, la parola di DIO, i grandi libri, i grandi amici, tanti e poi tanti che hanno ispirato la mia vita, soprattutto nella fede cattolica: i padri del deserto, i grandi monaci, Francesco di Assisi, Chiara, Teresa di Lisieux, Teresa d’Avila, Charles de Foucauld, padre Voillaume, sorella Maria, Giovanni Vannucci, Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Gandhi, Vinoba, Pina e Maria Teresa... Ma al centro sempre DIO e Gesù Cristo. Nulla mi importa veramente al di fuori di DIO, al di fuori di Gesù Cristo... i piccoli sì, i sofferenti, io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita, più sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia. Questo non è un merito. È una esigenza della mia natura. Ma è certo che in loro io vedo LUI, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo, che se li carica sulle spalle, che soffre ma con tanto amore, ...nessuno è al di fuori dell’amore di DIO.
Mi sono incolpata cento volte per avere accettato di venire qui davanti a voi a parlare della mia vita, sono stata debole ed ho accettato il parere dei miei amici che sono convinti che, a questo punto della mia vita, quaranta anni dopo, è giusto e bene condividere con altri i doni di DIO. Ma se questo mio ‘mettermi in pubblico’ potesse servire a qualcuno che non crede, a qualcuno che non vive dentro di sé questa straordinaria realtà che DIO ama ogni uomo, dal più degno di amore agli occhi degli uomini al più reietto e disprezzato, all’uomo cattivo, criminale... allora mi metterei in ginocchio e benedirei perché cose grandi ha fatto in me colui che è potente.
L’uomo non buono, l’uomo incapace di perdono, l’uomo che ama ferire, l’uomo che vuole la vendetta, l’uomo falso non sono uomini cattivi, incapaci di perdono, falsi necessariamente. Lo sono perché non hanno incontrato sul loro cammino una creatura capace di comprenderli, di amarli, di farsi carico delle loro colpe... “Tu hai fatto del male? Io pagherò al posto tuo” Così diceva Gandhi. Così ci ripete Gesù Cristo da duemila anni... chissà perché noi uomini siamo così sordi... Certo la sua voce è spesso piccola e silenziosa... ma poi LUI è nella celletta della nostra anima e non dovrebbe essere così difficile scendere laggiù ed abitare con LUI. Parole? NO. Verità. Realtà. Certo, per la maggioranza di noi uomini sarà ed è necessario fare silenzio, quiete, chiudere il telefonino, buttare il televisore dalla finestra, decidere una volta per tutte di liberarsi dalla schiavitù di ciò che appare e che è importante agli occhi del mondo ma che non conta assolutamente agli occhi di DIO, perché si tratta di non valori. Ai piedi di DIO noi ritroviamo ogni verità perduta, tutto ciò che era precipitato nel buio diventa luce tutto ciò che era tempesta si acquieta, tutto ciò che sembrava un valore, ma che valore non è appare nella sua veste vera e noi ci risvegliamo alla bellezza di una vita onesta, sincera, buona, fatta di cose e non di apparenze, intessuta di bene, aperta agli altri, in tensione onnipre-sente fortissima affinché gli uomini siano una cosa sola.
I poveri ci attendono.
È tempo di concludere. Ai Somali molto ho dato. Dai Somali molto ho ricevuto. Il valore più grande che loro mi hanno donato, valore che ancora io non sono capace di vivere, è quello della famiglia allargata, per cui, almeno all’interno del clan, TUTTO viene condiviso. La porta è sempre spalancata ad accogliere fino al più lontano membro del clan. La mensa è sempre condivisa. Quello che è stato preparato per dieci, sarà condiviso con chiunque si presenterà alla porta con la massima naturalezza. Non ci sono e non ci saranno recriminazioni, lamenti, vittimismi. È la cosa più naturale del mondo condividere con i fratelli. Nel mio mondo, a Borama, la piaga è la disoccupazione. Molta gente non ha mai lavorato nella sua vita perché non ha mai trovato un lavoro. Ed è così che quel solo che lavora si trova ‘costretto’ a condividere con venti trenta altri che non lavorano il frutto della sua fatica. Ma lui non lo vive come una ‘costrizione’. Lui lo vive con naturalezza. Laggiù condividere fa parte dell’esistenza. E poi quella loro preghiera cinque volte al giorno... l’interrompere qualsiasi cosa si stia facendo, anche la più importante, per dare tempo e spazio a DIO. Da quando sono con loro, sono trent’anni che io mi struggo perché anche nel nostro mondo noi fermiamo i lavori, ci alziamo se dormiamo, interrompiamo qualsiasi discorso per fare silenzio e ricordarci di DIO, meglio se assieme ad altri, per riconoscere che da LUI veniamo, in LUI viviamo, a LUI ritorniamo.
MA il dono più straordinario, il dono per cui io ringrazierò DIO e loro in eterno e per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Mussulmani, loro mi hanno insegnato la FEDE, l’abbandono incondizionato, la resa a DIO, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in DIO, una resa che è FIDUCIA e AMORE. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di DIO. BISMILLAHI RAHMANI RAHIM... Nel nome di DIO Onnipotente e Misericordioso... Ci si alza nel nome di DIO, ci si lava, si pulisce la casa, si lavora, si mangia, si lavora ancora, si studia, si parla, si fanno le mille cose di ogni giornata, e finalmente ci si addormenta: TUTTO nel nome di DIO. La consuetudine del nome di DIO ripetuto incessantemente che già aveva sconvolto e affascinato la mia vita con i racconti del pellegrino russo prima della mia partenza, ha trasformato la mia vita permanentemente. Rendo GRAZIE ai miei nomadi del deserto che me l’hanno insegnato.
Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’AMORE è inutile, che la mia religione cristiana non ha tanti e poi tanti comandamenti ma ne ha uno solo, che non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie né pellegrinaggi... che quell’Eucaristia che scandalizza gli atei e le altre fedi racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva mangi la tua condanna”. L’Eucaristia ci dice che la nostra religione è inutile senza il sacramento della misericordia, che è nella misericordia che il cielo incontra la terra. Se non amo, DIO muore sulla terra, che DIO sia DIO, IO ne sono causa, (dice Silesio), se non amo, DIO rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della Sua presenza e lo rendiamo vivo. In questo inferno di mondo dove pare che LUI non ci sia, e lo rendiamo VIVO ogni volta che ci fermiamo presso un uomo ferito. Alla fine, io sono veramente capace solo di lavare i piedi in tutti i sensi ai derelitti, a quelli che nessuno ama, a quelli che misteriosamente non hanno nulla di attraente in nessun senso agli occhi di nessuno. Luigi Pintor, un cosiddetto ateo, scrisse un giorno che non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi. Così è per me. È nell’inginocchiarmi perché stringendomi il collo loro possano rialzarsi e riprendere il cammino o addirittura camminare dove mai avevano camminato che io trovo pace, carica fortissima, certezza che TUTTO è GRAZIA. Vorrei aggiungere che i piccoli, i senza voce, quelli che non contano nulla agli occhi del mondo, ma tanto agli occhi di DIO, i suoi prediletti, hanno bisogno di noi, e noi dobbiamo essere con loro e per loro e non importa nulla se la nostra azione è come una goccia d’acqua nell’oceano. Gesù Cristo non ha mai parlato di risultati. LUI ha parlato solo di amarci, di lavarci i piedi gli uni gli altri, di perdonarci sempre... I poveri ci attendono. I modi del servizio sono infiniti e lasciati all’immaginazione di ciascuno di noi. Non aspettiamo di essere istruiti nel tempo del servizio. Inventiamo... e vivremo nuovi cieli e nuova terra ogni giorno della nostra vita.
Annalena Tonelli
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DALL’AFRICA
DI PADRE VITTORIO FARRONATO
P. Vittorio Farronato
L’autore, oltre a descrivere la realtà ed i bisogni della sua missione, rivolge un ringraziamento per gli aiuti ricevuti ed un appello perché la scuola continui ad essere una luce di speranza
La Comunità Comboniana di Bondo ( Repubblica Democratica del Congo ) ha accolto per alcuni giorni don Dante responsabile del CUAMM di Padova, don Davide della Caritas di Treviso, e il dott. Mario dell'Ospedale di Treviso. Sono venuti a vedere se è viabile un impegno CUAMM per il nuovo piccolo ospedale diocesano di Bondo.
Don Dante mi diceva: "Siamo presenti in più Paesi dell'Africa, dall'Angola all'Uganda, dalla Sierra Leone al Sud Sudan. Ma non ho mai visto un luogo così abbandonato dallo Stato, così sprovvisto di strutture e amministrazione, come questo territorio. Siamo abituati a situazioni difficili, ma non abbiamo mai visto situazioni così estreme e drammatiche".
Don Dante parlava della Sanità, dove il paziente deve pagare per entrare in ospedale, deve pagare ogni aspirina e garza, è totalmente solo a pagare un intervento chirurgico: il 90% dei malati non viene a farsi curare, donne e bambini vivono le loro difficoltà restando nella capanna, e questo spiega l'alta mortalità di donne e bambini. Gli Organismi come Medici Senza Frontiere spendono somme enormi per una epidemia di morbillo che tocca certo alcune centinaia di bambini sul Territorio, e qualche decina è raggiunta da loro: ma il grosso del dramma sanitario non è neppure visto, quasi che la situazione riguardo al resto fosse normale".
P. Vittorio Farronato
Ma noi ora parliamo della Scuola.
Cosa abbiamo potuto realizzare, grazie al consistente aiuto da voi prestato?
Inizio da una esperienza, quasi fosse una parabola. Quando ero ragazzo, vedevo nella Valsugana coltivazioni di mele. La primavera risveglia le gemme, il sole convince gli alberi a vestirsi di fiori, la valle è un incanto, i contadini ci sperano. Per precauzione, hanno preparato mucchi di rami tratti dal bosco o dalla predente potatura: se una notte arriva una gelata tardiva che brucia le gemme, i gruppi di sorveglianza danno fuoco alle cataste e quel fuoco alza di poco la temperatura della valle, così le coltivazioni di mele sono salve.
Il vostro aiuto ha permesso alle scuole di Bambilo di vivere e continuare. In questi anni abbiamo vissuto con fatica il nostro impegno per la Scuola ma il risultato è visibile. Ne parleremo ora insieme. Ma siamo come il contadino che si domanda: se nella prossima gelata mi manca il sussidio, ce la farò?
Primo dato positivo: Gli scolari delle elementari (sei anni) di Bambilo sono passati da 320 a 380. In sesta hanno terminato in 22 dei quali 17 sono stati promossi agli esami di Stato. Di tutte le scuole del territorio di Bambilo, gli scolari che sono arrivati in sesta elementare sono passati da 82 a 120. In diverse scuole disperse lontano, il numero dei bambini scolarizzati sta aumentando, segno di una maggiore fiducia verso la scuola come strada che apre sul futuro.
Secondo dato positivo: sono aumentati gli Insegnanti preparati da noi con le scuole serali di Recupero, aperte per chi aveva abbandonato gli studi negli anni passati per le troppe difficoltà. Anche quest'anno sono nove giovani, sei per il 'ciclo corto' (D 4) e tre per il 'ciclo lungo (D 6). Da aggiungere: quattro sono i 'maestri muratori' usciti dalla nostra Scuola Tecnica di Bambilo.
In questi anni sono aumentati gli Insegnanti diplomati ma pochi di loro hanno ottenuto il salario: le pressioni fatte e i tanti passi compiuti presso le Autorità dello Stato portano qualche frutto: almeno sulla carta sono ufficialmente dichiarati abilitati al salario, di fatto sono pochi quelli che lo ricevono. Le promesse sono tante ma "servono per tener buoni gli Insegnanti".
In un incontro informale di fine anno scolastico ci siamo domandati quali sono le previsioni per l'anno che riprenderà a Settembre.
a) Prima constatazione: Siamo stati "imbrogliati" dalle promesse di salario, e poi il salario dello Stato non è arrivato: umiliazione e stanchezza hanno reso triste il volto di tanti Insegnanti.
b) Le Scuole Secondarie di Bambilo (tecnica - muratura, 4 anni) e di Roa (umanista, 6 anni) registrano un aumento dei giovani che entrano, ma sono estremamente fragili se lo Stato, dopo le promesse ratificate da documento scolastico, non pagherà i Professori.
c) Solo Bambilo ha registrato un miglioramento dei risultati scolastici, anche perché abbiamo costruito 7 aule nuove in tre anni, e riparato le due vecchie aule del tempo coloniale (le uniche esistenti per molti anni). Ma solo in prima elementare ci sono i banchi, e mancano tre nuove aule per dare risposta dignitosa al numero dei bambini.
Abbiamo fatto le fondazioni per tre nuove aule scolastiche a Roa, ma la maggioranza delle aule resta in paglia e fango, le termiti mangiano il tetto per colazione e i temporali fanno il resto; ogni anno c'è da ricominciare.
d) Agli Esami statali, solo la sesta elem. di Bambilo ha avuto un buon risultato (merito di un nuovo insegnante giovane venuto da lontano a darci una mano) ma il resto è stato una umiliazione. Troppe carenze (aule, libri, quaderni, lavagne, banchi, maestri scoraggiati) spiegano come i nodi vengano al pettine. Piccola curiosità: con l'aiuto dei maestri, i bambini di Bambilo hanno estratto il caolino presso una sorgente, resta cuocerlo con olio di palma e aggiungere sale, poi imbiancare le aule di Bambilo, poi disegnare le carte geografiche, l'anatomia, un pò di biologia e zoologia, insomma quei disegni che il libro del maestro contiene ma i bambini sono senza libri. Disegnatore sarà Jean Mabù, un povero di Jahvè che vive solo in una capanna a 50 km dalla missione, un pò povero Lazzaro e un pò bravo artista. Speriamo.
e) Solo il 15 % dei bambini che entrano a scuola arrivano a finire il ciclo elementare. Caso limite: alla scuola del villaggio di Diaswe c'erano 120 bambini iscritti in prima (una sola aula, un solo maestro non pagato), e 6 in sesta, dei quali 3 sono stati promossi. Il miglioramento non è vistoso.
f) Avevamo il 60 % dei giovani del nostro territorio che hanno abbandonato i nostri villaggi del "Congo inutile". Molti di loro sono andati lontano in foresta a cercare oro. Adesso questo esodo giovanile è rallentato, ci sono più giovani che accettano la sfida di "Salvare Bambilo con Bambilo". Soprattutto stimolati dalla scuola per muratori, perché sono i nostri ragazzi che costruiscono le scuole, fanno i ponti in pietra ad arco romano, e ora stanno costruendo la "sala parrocchiale" che sarà un centro polivalente di incontri e formazion
Tutto funziona adagio e con fatica, ma Bambilo cresce, vuole crescere. Un esempio: il cemento arrivato due settimane fa, portato in bicicletta, veniva dal porto di Bumba sul fiume Congo, trasportato attraverso infami piste di foresta nella stagione delle piogge: un giovane da solo ha trasportato 4 sacchi da 50 kg sulla bicicletta cinese (spesso spinta a mano) percorrendo oltre 400 km. (di solito portano 3 sacchi, se vi pare poco). Poi l'antico Fiat della missione, rattoppato e risuscitato tante volte, ha fatto il trasporto da Bondo a Bambilo.
Davvero, non conosciamo il futuro e sappiamo che voi intendete concludere il ciclo dell'aiuto. Avete ragione, noi possiamo solo dire GRAZIE per il tanto che avete inviato.
Vi scrivo da Kisangani dove sono venuto a fare dei controlli sanitari (tutto bene, grazie a Dio). Tornare a Bambilo sarà un'altra avventura che richiederà più giorni.
A Bambilo non esiste internet e telefono, proverò da qui Kisangani mandarvi delle foto. La tecnologia dei bianchi non è il mio forte, ma ne avete diritto e proverò, corrente elettrica permettendo.
Attualmente a Bambilo siamo col nuovo confratello P. Voitek, comboniano polacco, giovane e generoso. Lui quando si dice strada pensa a una strada, quando si dice scuola pensa a una scuola. Vedendo la situazione (generale e) scolastica sbotta: "Questa non è una scuola, è una merda". Rispondo: "Vedi, il nostro Maestro dice di non spegnere il focherello che ancora fuma, e non tagliare la canna incrinata". Ma l'ho detto sottovoce, perché so che ha quasi ragione. Io se penso alla scuola e ai nostri bambini non dormo di notte. Ho detto al Vescovo di Bondo (mons. Ung'eyowun): "Se vuoi che un missionario muoia, dagli l'incarico della scuola" (ma queste parole non sono da riportare agli amici che ci aiutano, è solo uno sfogo che li renderebbe tristi. Da perdonare e lasciare).
Comboni diceva che siamo pietre di fondazione che entrano in palude e sembrano perse, ma stiamo mettendo basi su cui domani si alzerà l'edificio di una vita degna.
Agli Insegnanti ho detto: "Avete ragione. Ma anche se la notte è lunga, il sole sorgerà. Forse sono le quattro del mattino: non è il momento di mollare. Dài che ce la facciamo". A settembre ripartiremo.
Ho provato a descrivere qualcosa che assomigli a un rapporto, ma soprattutto desidero, desideriamo dirvi il nostro GRAZIE per questi anni, nei quali... le gemme dei meli della Valsugana non sono stati bruciati dalle gelate, e molti hanno potuto gustare i frutti della vostra generosità.
Con simpatia e gratitudine, P. Vittorio Farronato
L’Africa passa da qui
Abrehet Petros Tessema
07.10.2013
Da molto tempo serbavo nel cuore il desiderio di recarmi a Lampedusa, in questa piccola isola del Mediterraneo la cui posizione strategica ha fatto diventare crocevia di popoli. I tanti migranti che incontro a Palermo spesso me ne avevano parlato, ricordando il loro viaggio verso la “terra della speranza”. Conservo in cuore molte delle loro storie di vita e di morte che hanno condiviso con me.
Ed ecco che, inaspettatamente, mi si offre un’occasione unica: mi si chiede di andare a mediare con un gruppo di eritrei che si trovano lì: urge la presenza di qualcuno che sappia parlare la loro lingua. Mi metto in viaggio con il cuore pieno di interrogativi: «Cosa potrò dire a questi miei fratelli e sorelle per trasmettere loro tutta la mia solidarietà e il mio affetto? Come infondere speranza e certezza in un futuro migliore? Come essere consolazione in una situazione così difficile, accogliere le loro drammatiche storie?».
Il desiderio di condivisione si accompagna alla paura di non riuscire a sostenere il peso di tanta sofferenza: gente che, cercando una vita migliore, ha visto la morte in faccia, ha perso i propri cari e ora si trova ammucchiata nei campi che l’Europa ha riservato loro per l’accoglienza… uno spazio che sembra spazzare via quel po’ di speranza che ancora è nascosta nei loro cuori. Ad accogliermi trovo il parroco don Stefano e la sindaca Giusi Nicolini che subito mi mettono al corrente della situazione: i migranti eritrei si rifiutano di lasciare le impronte digitali, come prescritto dalle nostre leggi sull’immigrazione, perché vogliono continuare il loro viaggio verso altri Paesi europei dove sperano di avere maggiori possibilità di trovare lavoro. Per loro l’Italia rappresenta solo un approdo di passaggio, la “porta di vita e di speranza” da cui passare per andare oltre, lasciando alle spalle il passato. Accettare di lasciare le impronte digitali significa chiudere questa porta ed essere costretti a restare in Italia in condizioni di grave precarietà. Davanti ai vari rappresentanti della stampa europea, a una sola voce, sottolineano con forza di essere venuti in Europa per trovare una vita migliore che a loro è negata nel nostro Paese.
Ascoltare e comprendere
Don Stefano mi invita a scendere per strada, dove posso incontrare questi miei fratelli e sorelle. Con semplicità mi metto in cammino ed entro a contatto con le loro vite fatte di vicende tragiche e di sofferenza. Dopo due giorni di pellegrinaggio ottengo il permesso di entrare all’interno del Campo. L’emozione è grande, così come il timore di affrontare un’esperienza forte. Infatti, sbrigate le formalità, poco dopo mi trovo sommersa dalle loro storie di patimenti e violenze subìte per riuscire a fuggire dal loro Paese per raggiungere la sospirata “terra promessa”.
All’inizio riesco solo a dire qualche parola di benvenuto. Man mano che mi lascio sommergere dalle loro storie, cresce un’angoscia dentro di me che mi toglie la parola: è come se le loro vicende si incrocino con la mia; l’essere eritrea fa sì che la loro sofferenza diventi la mia e non è facile alleviare quel dolore. «Coraggio, avanti!» solo questo riesco a dire, con la preoccupazione che queste parole possano apparire di circostanza. Nonostante la sofferenza che hanno subìto, sento la loro fiducia in una vita migliore, colgo le loro aspettative: sono riusciti ad arrivare in Europa e questa è una grande conquista. Anche in me hanno fiducia: in questo momento sono il collegamento tra il loro passato e il futuro, parlo la loro lingua e con me possono esprimersi con serenità. Nonostante la mia forte emozione, riescono a cogliere il mio ascolto, la mia presenza per loro basta e in tanti momenti non c’è bisogno di parole.
Alcuni mi raccontano di aver attraversato il Sinai, di essere stati venduti e rivenduti come merce dai beduini, di essere stati maltrattati, violentati, feriti e schiacciati nella loro dignità. Per liberarsi sono stati costretti a chiedere ai loro familiari di indebitarsi per pagare il riscatto, e, arrivati in Israele, raccontano di essere stati rimandati indietro al loro Paese, ma di non aver desistito dal loro sogno. Si sono rimessi in viaggio per il Sudan e, attraverso il deserto, hanno raggiunto la Libia e patito altri soprusi e maltrattamenti… E poi il barcone, la paura di non farcela… fino a quando, all’orizzonte, è apparsa finalmente Lampedusa. Nel campo, oltre agli eritrei, incontro migranti provenienti da Sudan, Libia, Etiopia, Nigeria, Ghana, Ciad, Siria… Uno spazio troppo piccolo per tante persone. In alcuni momenti ho l’impressione di essere a Babilonia: in pochi metri c’è chi lava i propri vestiti, chi dorme su materassi a terra, chi parla, chi urla, chi cerca di passare il tempo… tutti ammassati, gli uni sugli altri, e l’ambiente mi appare ancora più angusto perché grandi sono le storie di sofferenza che ascolto.
Incontri preziosi
Da Lampedusa porto con me i volti di un’umanità travagliata, occhi stanchi, spaventati, ma anche colmi di speranza e voglia di ricominciare una vita nuova; nomi che non dimentico: Berhane, Manna, Rahiel, Merhawi, Amine, Letekidan, Mussie, Haile, Tsehaie …e tanti altri; numeri di telefono e recapiti che mi sono stati consegnati con la preghiera di contattare le famiglie per rassicurarle che ce l’hanno fatta, che sono arrivati vivi a destinazione; e poi i volti e il calore della gente di Lampedusa. Molte persone dell’isola mi hanno detto che ero la prima suora africana che vedevano, fino ad allora avevano visto solo migranti; porto con me il loro impegno ad accompagnare e sostenere questa gente.
Porto con me la gratitudine verso don Franco e don Stefano che mi hanno chiamata a vivere questa esperienza di incontro e ascolto così preziosa, verso coloro che mi hanno affidato le loro pene e le loro speranze e verso i lampedusani, che mi hanno dimostrato che, in un Paese, il nostro, in cui ancora persiste la paura dell’altro, del diverso, tante italiane e italiani, operando nel silenzio e con la semplicità del cuore, tengono viva la speranza in un mondo migliore.
Santi Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e compagni
-La Chiesa ne fa memoria Venerdì 20 settembre-
I vescovi coreani spingono i fedeli a conoscere la vita dei 103 martiri, canonizzati da Giovanni Paolo II e morti durante le persecuzioni anti-cristiane che hanno scosso il Paese per più di un secolo. Il loro sangue “ha fatto sbocciare i semi piantati da Dio in Corea”.
La Chiesa coreana ha la caratteristica forse unica, di essere stata fondata e sostenuta da laici; infatti agli inizi del 1600 la fede cristiana comparve in Corea tramite le delegazioni che ogni anno visitavano Pechino in Cina, per uno scambio culturale con questa Nazione, molto stimata in tutto l’Estremo Oriente.
E in Cina i coreani vennero in contatto con la fede cristiana, portando in patria il libro del grande padre Matteo Ricci “La vera dottrina di Dio”; e un laico, Lee Byeok grande pensatore, ispirandosi al libro del famoso missionario gesuita, fondò una prima comunità cristiana molto attiva.
Intorno al 1780, Lee Byeok pregò un suo amico Lee-sunghoon, che faceva parte della solita delegazione culturale in partenza per la Cina, di farsi battezzare e al ritorno portare con sé libri e scritti religiosi adatti ad approfondire la nuova fede.
Nella primavera del 1784 l’amico ritornò con il nome di Pietro, dando alla comunità un forte impulso; non conoscendo bene la natura della Chiesa, il gruppo si organizzò con una gerarchia propria celebrando il battesimo e non solo, ma anche la cresima e l’eucaristia.
Informati dal vescovo di Pechino che per avere una gerarchia occorreva una successione apostolica, lo pregarono di inviare al più presto dei sacerdoti; furono accontentati con l’invio di un prete Chu-mun-mo, così la comunità coreana crebbe in poco tempo a varie migliaia di fedeli.
Purtroppo anche in Corea si scatenò ben presto una persecuzione fin dal 1785, che si incrudeliva sempre più, finché nel 1801 anche l’unico prete venne ucciso, ma questo non bloccò affatto la crescita della comunità cristiana.
Il re nel 1802 emanò un editto di stato, in cui si ordinava addirittura lo sterminio dei cristiani, come unica soluzione per soffocare il germe di quella “follia”, ritenuta tale dal suo governo. Rimasti soli e senza guida spirituale, i cristiani coreani chiedevano continuamente al vescovo di Pechino e anche al papa di avere dei sacerdoti; ma le condizioni locali lo permisero solo nel 1837, quando furono inviati un vescovo e due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi; i quali penetrati clandestinamente in Corea furono martirizzati due anni dopo.
Un secondo tentativo operato da Andrea Kim Taegon, riuscì a fare entrare un vescovo e un sacerdote, da quel momento la presenza di una gerarchia cattolica in Corea non mancherà più, nonostante che nel 1866 si ebbe la persecuzione più accanita; nel 1882 il governo decretò la libertà religiosa.
Nelle persecuzioni coreane perirono, secondo fonti locali, più di 10.000 martiri, di questi 103 furono beatificati in due gruppi distinti nel 1925 e nel 1968 e poi canonizzati tutti insieme il 6 maggio 1984 a Seul in Corea da papa Giovanni Paolo II; di questi solo 10 sono stranieri, 3 vescovi e 7 sacerdoti, gli altri tutti coreani, catechisti e fedeli.
Di seguito diamo un breve tratto biografico dei due capoelenco liturgico del gruppo dei 103 santi martiri: Andrea Kim Taegon e Paolo Chong Hasang.
Andrea nato nel 1821 da una nobile famiglia cristiana, crebbe in un ambiente decisamente ispirato ai principi cristiani, il padre in particolare aveva trasformato la sua casa in una ‘chiesa domestica’, ove affluivano i cristiani ed i neofiti della nuova fede, per ricevere il battesimo, scoperto tenne con forza la sua fede, morendo a 44 anni martire.
Aveva 15 anni quando uno dei primi missionari francesi arrivati in Corea nel 1836, lo inviò a Macao per prepararlo al sacerdozio. Ritornò come diacono nel 1844 per preparare l’entrata del vescovo mons. Ferréol, organizzando una imbarcazione con marinai tutti cristiani, andando a prenderlo a Shanghai, qui fu ordinato sacerdote e insieme, di nascosto con un viaggio avventuroso, penetrarono in Corea, dove lavorarono insieme sempre in un clima di persecuzione.
Con la nobiltà del suo atteggiamento, con la capacità di comprendere la mentalità locale, riuscì ad ottenere ottimi risultati d’apostolato. Nel 1846 il vescovo Ferréol lo incaricò di far pervenire delle lettere in Europa, tramite il vescovo di Pechino, ma durante il suo incontro con le barche cinesi, fu casualmente scoperto ed arrestato.
Subì gli interrogatori e gli spostamenti di carcere prima con il mandarino, poi con il governatore e giacché era un nobile, alla fine con il re e a tutti manifestò la fedeltà al suo Dio, rifiutando i tentativi di farlo apostatare, nonostante le atroci torture; alla fine venne decapitato il 16 settembre del 1846 a Seul; primo sacerdote martire della nascente Chiesa coreana.
Paolo Chong Hasang. Eroico laico coreano, era nato nel 1795 a Mahyan, il padre Agostino e il fratello Carlo vennero martirizzati nel 1801, la sua famiglia composta da lui, la madre Cecilia e la sorella Elisabetta, venne imprigionata e privata di ogni bene, furono costretti ad andare ospiti di un parente, ma appena gli fu possibile si trasferì a Seul aggregandosi alla comunità cristiana; perlomeno quindici volte andò in Cina a Pechino in viaggi difficilissimi fatti a piedi, spinto dall’eroismo di una fede genuina, professata nonostante i gravi pericoli.
Collaborò alacremente affinché il primo sacerdote Yan arrivasse in Corea e poi dopo di lui i missionari francesi: il vescovo Imbert ed i sacerdoti Maubant e Chastan.
Fu accolto con la madre e la sorella dal vescovo Imbert, il quale desiderava farlo diventare sacerdote, ma la persecuzione infuriava e un apostata li tradì, facendoli imprigionare.
Paolo Chong Hasang venne interrogato e torturato per fargli abbandonare la religione straniera a cui si era associato, ma visto la sua grande fermezza, venne condannato e decapitato il 22 settembre 1839, insieme al suo caro amico Agostino Nyon, anche lui firmatario di una petizione al papa per l’invio di un vescovo in Corea. Anche la madre e la sorella vennero uccise dopo alcuni mesi.
Il vescovo e i due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi, vennero decapitati anche loro nel 1839.
testimonianza di vita missionaria
Marcelllo Candia
misionario laico
Marcello Candia
(Portici, 27 luglio 1916 – Milano, 31 agosto 1983)
L’eredità spirituale che Marcello Candia lasciò ai suoi amici, è una frase che aveva fatto scrivere sulle pareti della sua abitazione in Brasile: “Non si può condividere il Pane del cielo, se non si condivide il pane della terra”.
Marcello Candia nasce a , presso PorticiNapoli, dove la famiglia si era temporaneamente trasferita da Milano per lavoro, terzogenito di cinque figli. Dal padre Camillo, spirito laico e tollerante, eredita le capacità imprenditoriali, dalla madre, Luigia (Bice) Mussato, la fede cattolica e l'amore per il prossimo. È la madre che da bambino lo accompagnava in chiesa e talvolta lo portava con sé nella sua opera di assistenza ai poveri, nell'ambito della San Vincenzo. Nel 1933 mamma Bice muore prematuramente, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore del figlio diciassettenne.
Marcello consegue tre lauree, in chimica, farmacia e biologia, e inizia l'apprendistato nell'azienda paterna. La seconda guerra mondiale lo vede chiamato alle armi, al ritorno si prodiga in numerose iniziative missionarie, con l'instancabile zelo che lo accompagnerà per tutta la vita. Dopo avere aiutato gli ebrei e i perseguitati politici, nel 1945 accoglie i deportati che rientrano dalla Germania; nello stesso anno collabora con Elda Mazzocchi Scarzella alla creazione del "Villaggio della Madre e del Fanciullo", poi fonda la rivista "La missione" e successivamente, con monsignor Giovanni Battista Montini e Giuseppe Lazzati, collabora alla nascita del "Collegio degli studenti d'Oltremare". Nel 1947 fonda a Milano l'Unione Medici Missionari italiani e, successivamente, l'"Associazione Laici in Aiuto delle Missioni".
Negli anni cinquanta matura in lui la decisione di diventare missionario laico; nel 1961 vende l'azienda ereditata dal padre e, insieme a monsignor Aristide Pirovano, vescovo del luogo, inizia la costruzione di un grande ospedale a Macapà, in Brasile, sul Rio delle Amazzoni, dove si trasferisce definitivamente nel 1965 L'ospedale, intitolato a San Camillo e a San Luigi per onorare la memoria dei genitori, inaugurato ufficialmente nel 1970, è la prima di numerose opere, comprendenti ospedali, lebbrosari, centri sociali e di accoglienza, oltre a conventi e scuole: è in queste strutture che la gente bisognosa di assistenza vede la possibilità di una salvezza prima negata. Ricordiamo tra gli altri: il Centro Sociale e la casa di preghiera "Nossa Senhora da Paz" per il lebbrosario di Marituba; il Centro Sociale per il lebbrosario di Prata; i "Carmeli" di Macapà e Belo Horizonte.
Nel 1975 il più diffuso settimanale illustrato brasiliano, "Manchete", gli dedica un articolo dal titolo L'uomo più buono del Brasile. Nello stesso anno dona l'ospedale di Macapà ai Camilliani, per garantirne la continuità dopo la sua morte. Nel 1980 avviene l'incontro con papa Giovanni Paolo II, durante la visita del pontefice al lebbrosario di Marituba. Papa Giovanni Paolo II abbracciò molti lebbrosi e poi chiese di Marcello Candia che non vedeva e poi giunto che spingeva una carrozzella con un lebbroso senza mani e piedi, l’abbracciò e baciò in fronte; si meritò il titolo di “Marcello dei lebbrosi”.
Nel 1982 istituisce la “Fondazione Dottor Marcello Candia”, tuttora operante. Nel 1983 rientra molto malato dal Brasile e muore il 31 agosto a Milano, circondato dall'affetto dei familiari. La tomba, inizialmente collocata nel cimitero di Chiaravalle, alle porte della città, si trova ora nella chiesa milanese degli Angeli Custodi, che fu la sua parrocchia.
Il 12 gennaio 1991, il cardinale Carlo Maria Martini apre il processo di canonizzazione del Servo di Dio Marcello Candia, chiuso l'8 febbraio 1994 ; nel 1998 viene depositata la “Positio super virtutibus”, ultimo passo prima della beatificazione. Postulatore della causa è il padre missionario e giornalista Piero Gheddo. Alcune sue espressioni tipiche: "Io non sono nulla. Sono solo un modesto strumento della Provvidenza"; "Non sono io che ho dato qualcosa, ma loro, i poveri, che danno a me"; "Chi ha molto ricevuto dalla vita deve dare molto". Dal 1983 viene assegnato il premio internazionale “Marcello Candia”. Il poeta Alberto Mario Moriconi gli dedicò un'ode. Il 15 marzo 2011 viene inaugurato un parco giochi a lui dedicato in un'area compresa tra Via Colletta e Via Sannio a Milano. Nell'agosto 2011, l'ex civico n. 81 di Via Terracina a Napoli viene rinominato "via Marcello Candia", con dedica all'imprenditore-benefattore.
La Fuggitiva
Romanzo scritto da Padre Antonio La Salandra, Missionario Comboniano
Prefazione
Il romanzo “La fuggitiva” presenta lo spaccato di una vita vissuta, per decenni dall’autore, tra i Logbara, all’epoca, semiprimitivi del West Nile a Nord dell’Uganda. E’ una storia di realismo quotidiano, raccontata con lirismo, senza falsi pudori o sconvolgenti sottointesi, per rimandare tutto alla mente del lettore.
E’ la storia vera di una coraggiosa fanciulla, ribellatasi all’usanza commerciale del matrimonio, per non essere un oggetto consenziente di mercimonio, secondo una pratica, che permette la vendita di una bella e giovane ragazza, da parte dei genitori e senza il suo consenso, ad un ricco e vecchio individuo, lascivo e senza scrupoli, per soddisfare le sue immonde e spregevoli voglie sessuali.
E’ la storia di una ragazza che non si piega alla immoralità di una prassi tribale.
E la storia di una giovinetta audace che non si rassegna all’immobilismo imperante e fiera, superba e spavalda cerca di non soccombere, ribellandosi al crudele destino a cui sono condannate le fanciulle povere, senza poter opporre nessuna resistenza, ma solo accettare, sottomesse, ciò che altri hanno deciso per il loro futuro.
E’ la storia vera di una coraggiosa donzella che ingaggia una lotta enorme, affrontando anche pericoli per sfuggire ai suoi carnefici, confidando solo nell’aiuto del buon Dio e della Madonna.
malvagità, la sua coraggiosa determinatezza ha superato ogni ostacolo e ha sconfitto ogni paura, nella sua corsa verso la libertà.
Il romanzo ruota intorno al personaggio di Filomena “La fuggitiva” che non ricorre al suicidio, come tante sue conterranee. E’ scappata, si è nascosta, si è travestita, si è rifugiata nella missione, da dove ha iniziato un’opera di riscatto e di emancipazione della donna, educandola ad un nuovo stile di vita.
Nel romanzo viene narrata, in forma semplice e lineare, la cultura e la quotidianità della gente Logbara. E’ la variegata storia di una tribù, quasi selvaggia, che si affaccia alla civiltà.
La storia è narrata da un missionario comboniano, padre Antonio La Salandra, un prete dotato di una spiccata indole missionaria: uomo di cultura, di preghiera, di senso pratico, che per 54 anni in Africa, ha dedicato la sua vita, i suoi pensieri, le sue azioni, il suo cuore, i suoi affetti per i più deboli, prete povero, modesto, che prega e opera per la ricchezza degli altri, per gli emarginati, un prete vero che ama portare Dio agli uomini con la sua fattiva presenza, con la concreta dimostrazione di vita vissuta, con azioni lineari e con linguaggio sincero ed efficace..
In conclusione la vera storia narrata nel romanzo “La Fuggitiva” ben si adatta alla lettura dei giovani contemporanei, inoperosi nella “movida” e schiavi di una società consumistica ed edonistica, favorevole nel massificare i valori autenticamente cristiani della vita.
Prof. Donato Damiano direttore didattico
Il Romanzo in versione integrale
PER SCARICARE IL ROMANZO IN VERSIONE INTEGRALE SUL TUO PC, CLICCA QUI'.doc (153088)
Celebrazione del sessantesimo di sacerdozio di P. Antonio La Salandra
(21-22 maggio 2011)
E festa della Vergine Maria Mediatrice di tutte le grazie. “29 maggio 2011)
La comunità dei missionari di Troia ha festeggiato il sessantesimo di sacerdozio di P. Antonio La Salandra, troiano. Il padre nacque a troia il 13/6/1923. Entrò nel seminario vescovile di Troia nel febbraio 1938, mentre era vescovo alla stessa città, Mons. Fortunato Maria Farina, lo stesso che invitò i comboniani ad iniziare il seminario degli apostolici per le missioni africane. Il fondatore di tale seminario fu il servo di Dio Padre Bernardo Sartori nel 1927.
Per l’occasione fu installata una foto storia, in bianco e nero, di foto riguardante la missione degli inizi di Omach, sulla sponda est del Nilo Alberto, ricavate dall’album storico di P. Zambonardi, di padre Sartori e dello stesso p. Antonio. Molte sono state anche le foto a colore.
Al sabato alle ore 20.00, P. Gianni Capaccioni ha tenuto una conferenza dal titolo: “I Comboniani a Troia” alla presenza del P. Generale dei Comboniani, P. Enrique Sanchez Gonzalez e il consigliere Fr. Giusti Daniele, entrambi da Roma, nella sala conferenza molto gremita da Troiani, e benefattori ed amici dei missionari. Da questa conferenza ne venne fuori un risultato molto interessante e cioè che più di 300 comboniani passarono per questa casa con vari e diversi compiti nel seminario apostolico. Alcuni si distinsero per impegno e santità come P. Sartori Bernardo, Corbelli, Ivo Cicacci, Pedrana. “4 sono stati i superiori fino ai nostri giorni. Nel suo intervento P. Generale disse fra l’altro che i tempi sono in continuo cambiamento, come anche la missione è cambiata. Riferendosi a P. Antonio, ringraziando Dio per il suo lavoro di molti anni spesi nel West Nile, è tempo che ora se ne stia in Italia, per continuare la missione in Italia col suo entusiasmo di sempre e animando anche i missionari delle retrovie, perché la missione si svolge nel posto in cui si è. Però, concluse il Generale, con un’apertura ad andare a fare qualche visita ai suoi Logbara per qualche mese. P. Antonio, concludendo la conferenza, rese omaggio al servo di Dio, P. Bernardo Sartori che piantò il seme del carisma comboniano a Troia non solo ma anche in Puglia percorrendola quasi tutta, facendo delle puntate in Lucania, nel Molise nel casertano. I Troiani da parte loro hanno fatto sempre a gara ad aiutare i “missionant” con preghiere, sacrifici, beni in materia, come cibi e soldi fino ad oggi. “Anche voi- concludeva il padre- siete diventati missionari ed alcuni di voi avete dato figli all’istituto per diventare missionari del vangelo ai poveri Africani” Così i Troiani hanno lavorato in sintonia coi missionari per il Regno di Dio.
La liturgia dell’Eucaristia ha avuto luogo nella domenica del 22 alle ore 12 nel santuario della Mediatrice di tutte le Grazie. Alla concelebrazione erano presenti, oltre al P. Generale e Fr. Giusti, consigliere generale, 12 sacerdoti tra diocesani e comboniani, venuti da Lecce e Bari. P. Antonio Guglielmi condusse anche i suoi genitori.
Il coro dei giovani laici missionari, hanno animato la liturgia con un tocco africano, cantando canti dell’Africa. Tre danzatrici, vestite con abiti africani, portarono all’altare la Sacra Scrittura per la proclamazione della parola di Dio I fedeli, parenti, amici, benefattori e parrocchiane restarono sorpresi da questa danza liturgica africana a cui P. Antonio pigliava parte al ritmo della danza come se stesse in Africa. Alla Parola seguì l’omelia tenuta da Mons Don Giovanni Mace, direttore dell’Oasi- Betania- di Lucera, Amico intimo di P. Antonio. Don Giovanni stette in Uganda dove ammirò l’operato del padre e degli altri missionari comboniani. Nelle sue parole il predicatore, spiegando il Vangelo con riferimenti alla vita vissuta di P. Antonio, commosse parecchie volte gli ascoltatori i quali non se ne accorsero che l’omelia durò un’ora. La celebrazione durò 2 ore fuori dal normale. Molti dei fedeli dissero che finalmente avevano ascoltata una vera liturgia che toccò il loro cuore.
Alla celebrazione seguì un buon pranzo offerto dalla sorella del festeggiato, Incoronata La Salandra, nell’ex refettorio del seminario. Conferenza, concelebrazione e pranzo unirono missionari a partecipanti in una sola famiglia. A Dio sia ogni gloria.
P. Antonio La Salandra
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TESTIMONIANZA DI PADRE
PINO GIANNINI
MISSIONARIO COMBONIANO IN KENYA
Se devo cominciare in un modo informale e diretto dico subito che sono un sacerdote missionario comboniano contento. I tre aspetti appena menzionati vanno assieme e tutti e tre concorrono a dare bellezza e gioia alla mia vita soprattutto in questi quarantadue anni dalla mia ordinazione. Sono stati anni in cui ho esperimentato l’amore di Dio attraverso le tante persone che il Signore mi ha fatto incontrare nel mio servizio sacerdotale e missionario. Quando fui ordinato poco dopo aver celebrato i ventiquattro anni di età, certamente, non capivo molto di quello che significasse essere sacerdote missionario comboniano. La gente umile ma ricca di fede che ho incontrato soprattutto durante i miei ventisei anni in Malawi mi ha fatto scoprire la bellezza profonda di questa mia vita missionaria. E’ lì soprattutto che il mio sogno di lavorare in Africa per cui entrai tra i comboniani si è realizzato.
Ricordo un episodio in cui ho potuto veder la fede degli umili lì dove forse noi troveremmo solo delle coincidenze. Una domenica dopo aver celebrato la messa in una cappella di una parrocchia retta dai comboniani mi fu chiesto di portare l’Eucaristia a una signora anziana che non poteva camminare. Lasciata la macchina sulla strada asfaltata, m’incamminai con alcuni leader della comunità verso la casa che si trovava su una collina. La figlia della signora era assieme a noi con un bambino piccolo sulla schiena alla maniera delle mamme africane. Ci spiegò che la mamma a un certo punto non era più stata capace di camminare e perciò di sbrigare le solite faccende domestiche. Era stata porta all’ospedale ma tutto era rimasto come prima. L’avevano portata anche a un esperto di medicina tradizionale. Anche lui era stato incapace di aiutare la signora. Pregammo assieme e la signora era seduta sulla stuoia, dove ricevette la comunione. Dopo tornai verso la strada principale e in seguito dimenticai questo momento di preghiera anche perché quasi ogni domenica dopo la messa mi veniva chiesto di portare la comunione a persone malate.
Passò un po’ di tempo e fui mandato a celebrare la messa in un’altra cappella. La rivedo ancora nella memoria lunga e stretta, una cappella di una certa età verrebbe da dire simpaticamente. Durante la messa dall’altare vedo entrare una signora giovane con un bambino sulla schiena. Da lontano la guardo e penso “mi sembra di averla già vista”, ma poi non ci penso più e continuo la messa.
Alla fine della celebrazione la giovane signora si avvicina da sola e mi chiede “padre, mi riconosci?” Le rispondo di sì ma anche le dico che non ricordo dove l’abbia incontrata. Mi dice che è la figlia di quella signora anziana a cui avevo portato la comunione insieme all’unzione degli infermi. E poi mi dice “sai, padre, adesso mia mamma cammina ed è tornata alla vita normale in casa. Subito dopo aver ricevuto i sacramenti quel giorno lei guarì”. Mi congratulai con lei e ringraziai il Signore che fa meraviglie nella vita degli umili che pongono la loro fiducia in lui. E noi crediamo che la potenza d’amore del Signore agisce attraverso i sacramenti per il bene della persona intera. E’ un episodio che non dimenticherò facilmente impresso come è nella memoria riguardo ai posti ricordati in questo racconto.
p. Pino Giannini
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Pino Giannini
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